L'intervista

Il teatro di Loredana Cont

Quello di Loredana Cont è un nome noto tra le compagnie amatoriali venete e non solo. Le sue commedie - composte in trentino, ma tradotte nelle più diverse lingue locali, oltre che in tedesco, sloveno e portoghese - sono ingranaggi teatrali scritti con scioltezza e vena brillante.
Nata in Svizzera, ma da anni residente a Rovereto, in provincia di Trento, come autrice Loredana Cont ha composto più di trenta commedie (ad una delle più note, "L'usel del marescial", è stata persino dedicata una tesi di laurea), oltre a diversi atti unici e monologhi dei quali è anche interprete..

Così come per altri autori particolarmente apprezzati dal teatro amatoriale, non potevamo non fare quattro chiacchiere con questa vulcanica autrice e attrice, spaziando dai princìpi e dai metodi alla base della sua produzione, fino ad una riflessione più ampia sul significato, oggi, del teatro popolare e della produzione dialettale.

Lista dei testi, calendario degli spettacoli e contatti su www.loredanacont.it
Nella foto grande in alto, Loredana Cont in scena con Piovene Teatro


di Alessandra Agosti

Come è arrivata a scrivere per il teatro?
Ho scritto la mia prima commedia a vent'anni, nel 1976. Bisogna tenere presente che all'epoca - diciamo dalla metà degli Anni Sessanta - non si faceva più molto teatro, perché parecchie sale parrocchiali erano state trasformate in cinema o altro e i giovani avevano interessi diversi; quindi non si scriveva più granché e le vecchie filodrammatiche andavano sparendo. Un giorno ricordo di essere andata con dei colleghi di lavoro a vedere una commedia; la guardavo e mi rendevo conto che la gente rideva per niente, con un testo infelice e vecchio... Per farla breve, ho cominciato per questo, spronata a scrivere una commedia migliore di quella che avevo visto: d'altra parte, mi sembrava una cosa alla portata di tutti, forse perché ho sempre amato scrivere e ho una marcata vena ironica.

Che cosa prova quando rilegge testi che ha scritto in momenti diversi della sua vita?
Li trovo tutti gradevoli, quelli più comici, così come quelli nei quali ho scelto di non calcare troppo la mano. E non ne rinnego nessuno: li considero semplicemente il frutto di un'epoca, di un momento. Ovviamente la mia scrittura è cambiata, è maturata, così come il mio modo di pensare: in particolare, credo di aver imparato a togliere piuttosto che ad aggiungere e ad approfondire maggiormente la psicologia dei personaggi. Nei primi lavori ero una ragazza: "A no' saverla giusta", per esempio, penso si capisca che è stato scritto da una persona giovane, perché gli adulti sono piuttosto ridicoli, e che rappresenta la fotografia di un'epoca - i primi Anni Settanta – in cui una ragazza non sposata incinta era una tragedia familiare. Nelle commedie degli Anni '90, invece, una giovane sposa con dei figlioli; adesso ho un'altra visione ancora.
Nei miei testi, comunque, ho sempre cercato di "trattare bene" tutti, ma con un occhio di riguardo nel raccontare i giovani - che in fondo vivono nel mondo che abbiamo costruito noi genitori -  e gli anziani, che per me sono un patrimonio: non sopporto di vederli ritratti come nonni con il pannolone da cambiare; se nelle mie commedie sono divertenti è perché, magari, hanno l'apparecchio acustico che non funziona e questo provoca qualche equivoco... Mi interessa che questo rispetto ci sia, a teatro: e da parte di chi mette in scena testi in generale, non solo i miei.

Ritiene che anche la comicità sia cambiata nel corso degli anni?

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Sì, e per fortuna. Una volta si rideva per l'ubriacone, per il balbuziente, per il gobbo... adesso, in generale, c'è più sensibilità verso queste situazioni, che nascondono tragedie umane e familiari. È cambiata la società, e chi si ostina a proporre a teatro questo tipo di comicità sbaglia, perché magari la gente ride, ma con fastidio... Verso la fragilità umana, in tutte le sue forme, ci vuole attenzione.

E la sua comicità? Come la definirebbe?
Io sono "condannata" a far ridere: ha tante idee di cose non comiche, che penso potrebbero interessare; ma la gente mi vede e ride. Il pubblico è così: se cambi genere se ne risente. Pensiamo a Lino Banfi, per esempio: quanto ci ha messo a farsi accettare anche come attore drammatico? Quanto allo stile, mi dicono spesso che la mia è una comicità che ha garbo, che graffia con guanti di velluto, sia nelle commedie che nei monologhi: si arriva alla risata senza eccessi e senza volgarità, per gradi e magari con una riflessione. Cerco di non calcare più di tanto la mano, e, su tutto, metto il rispetto per la persona. Non so se dipende dal fatto che sono una donna, ma dico sempre a me stessa: «Chi sono io per giudicare?».

Che rapporto ha con la scrittura? Come elabora un'idea da trasformare in commedia?
Mi deve venire spontanea, non provocata: anzi, per me avere un argomento predefinito può essere un limite. Chiaramente, l'idea non sempre è perfetta in partenza, così cerco di farla maturare e quando ho in testa la storia (perché nei miei testi c'è sempre una storia, un intreccio, un equivoco, qualcosa che tenga viva la curiosità del pubblico) e arriva il momento giusto scrivo. Scrivere è bellissimo, ti dà libertà, una sensazione quasi di potere. Ho dato vita a circa 170 "personaggi", che poi, sul palco, diventano "persone".

Come lavora materialmente?
A mano, perché voglio vedere cosa scrivo e cosa cancello. Lavoro la sera, al tavolo della cucina, e sono velocissima: in due-tre serate scrivo una commedia, perché può sembrare una frase fatta, ma davvero i personaggi parlano da soli. Invece, i testi per la radio e la tv, che sono corti, li posso scrivere al computer. Anche i monologhi che recito io. Quanto agli appunti, una volta avevo un taccuino: ma ho la mania delle borse, e finivo col dimenticarlo; adesso quando voglio ricordarmi qualcosa mi faccio un messaggio vocale o scrivo nel notes del cellulare. Le idee è importante segnarlese subito, perché vengono e spariscono.

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Lei è un'autrice prevalentemente dialettale. Perché?
Perché il dialetto è frizzante e mi piace mantenerlo; e il teatro amatoriale, in questo, ha un ruolo fondamentale. Il dialetto, però, è solo un linguaggio, non un contenuto; c'è chi vede un titolo in italiano e non va teatro, perché pensa che si rida solo con i testi dialettali, mentre non è affatto così: si ride quando c'è un meccanismo comico che funziona, indipendentemente dalla lingua utilizzata.

Spesso si associa l'uso del dialetto ad un'«operazione nostalgia», con allestimenti che guardano al passato. Nel suo teatro, in genere, non è così...
Perché i mieti testi guardano alla quotidianità e in buona parte potrebbero essere stati scritti anche oggi (salvo per il fatto, ad esempio, che non ci sono i cellulari, il cui avvento ha cambiato il modo di scrivere commedie). La "nostalgia", se vogliamo, sta nel dialetto, nel piacere di sentirlo: già quello ti dà un'idea di casa, di vissuto e, spesso, anche di divertimento. Il teatro dialettale, comunque, è destinato a diventare di nicchia, perché i giovani non lo parlano più. C'è qualche bella eccezione, però; di recente, ad esempio, ho visto una commedia fatta da ragazzi che parlavano benissimo in dialetto ed erano uno slavo, un albanesee e una marocchina: parlavano in trentino, perché per chi non è italiano imparare un dialetto o una lingua è la stessa cosa.

I suoi testi nascono in trentino ma sono tradotti in varie lingue locali e perfino in lingue straniere...
Io scrivo pensando al trentino, ma evidentemente tratto temi, sentimenti e situazioni del quotidiano nelle quali si ritrovano un po' tutti. E poi, il fatto delle traduzioni in altri dialetti credo dimostri che ogni regione ha il desiderio di mantenere il proprio dialetto, in un'epoca in cui se non sai l'inglese non capisci più neanche l'italiano. Devo ammettere che la cosa mi fa piacere, e mi diverte trovare le mie commedie come parte integrante, per esempio, proprio del repertorio dialettale veneto... Anzi, ne approfitto per ringraziare davvero di cuore tutte le compagnie venete che mettono in scena testi miei: a cominciare da Piovene Teatro, che è stata la prima; a La Nogara di Cogollo di Tregnago e alle tante altre che hanno scelto di allestire miei lavori. E un grazie anche al pubblico veneto, che va tanto a teatro.

Qual è, secondo lei, l'elemento più importante per far funzionare una commedia?
I dialoghi, perché il dialogo "è" il testo: la scrittura teatrale è questo. E poi tutto deve essere in equilibrio, creando qualcosa di armonico. Nel caso del teatro comico, c'è bisogno di una bella storia, di personaggi interessanti, brillanti, di battute e azioni mosse bene, in maniera scorrevole, con una comicità continua, non concentrata tutta alla fine. Quanto alla durata, due atti vanno bene. Altra cosa importante, cercare di dare soddisfazione a tutti gli attori: ai protagonisti, ma anche alle "particine", perché rimangano in mente, anche se piccole.

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Che rapporto ha con le compagnie che traducono i suoi testi?
Quasi tutte mi mandano una mail, chiedendomi un testo e l'autorizzazione per la Siae. Di solito chiedo se possono mandrami o il testo tradotto o magari anche un dvd. Ci sono anche compagnie che mi chiedono spiegazioni su certi termini, e le aiuto volentieri; altre mi chiedono magari qualche cambiamento, per esempio su un personaggio, e sono abbastanza disponibile anche in questo: preferisco che mi chiedano di modificare qualcosa, piuttosto che siano loro a farlo. D'altra parte in un testo c'è sempre il pensiero dell'autore, ed è giusto che sia rispettato.

 

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