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Compagnie

I 40 anni del Satiro

Sono trascorsi quarant'anni da quando questa nota compagnia trevigiana, attraverso la sua “anima” Gigi Mardegan, ha iniziato a frequentare con successo i palcoscenici veneti e non solo. All'attore e regista, già presidente di Fita Veneto alcuni anni fa, abbiamo chiesto di raccontarci emozioni e ricordi di questo lungo viaggio che continua a vele spiegate con un progetto molto particolare.

di Sara Panizzon

Custode della storia e ironico anfitrione sempre pronto a raccontare il Veneto nelle sue più segrete sfaccettature, Gigi Mardegan, con la sua compagnia Il Satiro di Paese (TV), festeggia quarant'anni di carriera teatrale debuttando con un nuovo spettacolo, scritto dal noto psichiatra veronese Vittorino Andreoli e diretto da Roberto Cuppone.
Dal 1978, anno di fondazione della sua associazione culturale, ne sono passati di palchi sotto i piedi di questo artista sempre pronto ad avvicinare il pubblico alla storia tra risate e riflessioni. Dalle prime serate come attore autodidatta ai numerosi riconoscimenti nazionali, Mardegan è sempre rimasto fedele a se stesso promuovendo il teatro amatoriale come uno spazio culturale dove potersi esprimere, ma anche arricchire umanamente e artisticamente. 

Ripercorrendo la storia, Mardegan, come è nato il suo amore per il teatro?
Ho sempre avuto una predisposizione per il teatro, sin da bambino infatti mi piaceva scrivere testi, fare sceneggiate e scherzi. A vent'anni sono entrato nelle prime compagnie teatrali guidate per lo più da registi improvvisati. Fare l'attore, però, mi piaceva molto e desideravo migliorare la tecnica: per questo decisi di studiare seriamente alla Libera Università Europea a Perugia. 

Lei è anche un grande studioso di storia veneta, divenuta fonte d'ispirazione per molti spettacoli di successo...
Ho sempre narrato la storia della mia terra in dialetto. Spesso mi sono chiesto se questa scelta fosse giusta o se, per arrivare ad un pubblico più vasto, dovessi tradurre i testi in italiano. La risposta me l'ha data il drammaturgo Luigi Lunari, la cui amicizia è stata determinante nella mia carriera teatrale, che un giorno mi disse: "Tradurre i tuoi testi in italiano sarebbe un delitto: se vuoi essere universale racconta i personaggi nella loro realtà e verità". Il dialetto, infatti, fa parte dell'identità culturale delle storie che rappresento e seguendo il consiglio di Luigi non ho mai tradotto un testo, arrivando ad essere compreso e apprezzato dal pubblico proprio per questa caratteristica. 

In quarant'anni di carriera quali sono state la soddisfazione e le delusioni più grandi?
Tra le soddisfazioni più grandi metterei l'interpretazione di "Mato de Guera", spettacolo che ha consolidato l'amicizia con Roberto Cuppone, e che, oltre ai riconoscimenti, mi ha dato la gioia di vedere il pubblico coinvolto ed interessato. Tra le delusioni più grandi, invece, metterei lo spettacolo "La Repubblica dei mati" che non è stato mai pienamente compreso dagli spettatori. 

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Ieri come oggi cosa rappresenta per lei il teatro? 
Rappresenta una forma di cultura. Io recito non solo per il piacere di farlo, ma anche perché mi dà modo di approfondire tematiche e caratteri che vanno oltre gli applausi finali dello spettacolo. Mi affeziono ad ogni soggetto che interpreto e se dovessi trovarne uno preferito direi il prete de “La Locomotiva”, personaggio schietto e ruspante. 

Lei è stato presidente della Fita Veneto: come è cambiato il mondo del teatro amatoriale?  
È cambiato molto rispetto al passato. I giovani ora vi si approcciano in modo quasi superficiale, attratti da un successo che non è così immediato da ottenere. Sta scomparendo la gavetta, ma è sempre bene ricordare che il vero teatro richiede impegno e studio. Per questo consiglio ai ragazzi che desiderano fare gli attori di leggere, studiare e appassionarsi a ciò che fanno. In questo contesto l'istruzione è importante, perché proprio a scuola, con corsi e progetti, i ragazzi possono coltivare la passione per il teatro. 

L'anno prossimo debutterà con un nuovo spettacolo scritto da Vittorino Andreoli: come è nato questo sodalizio? 
L'ho incontrato a Verona dopo la rappresentazione di "La Locomotiva" e in quel momento si è instaurata una collaborazione che ha portato alla nascita di "El Morto", il mio nuovo spettacolo scritto proprio da Andreoli, che ho scoperto essere un ottimo sceneggiatore. La regia è affidata a Roberto Cuppone con il quale sto lavorando per rendere al meglio il testo, che narra le vicende di un contadino veneto che, dopo la dipartita da questo mondo, si ritrova nell'aldilà ad attendere un treno per raggiungere la sua destinazione finale, e valuta la nuova situazione con nostalgia verso ciò che ha lasciato. Nel suo testo Andreoli squarcia il velo di perbenismo ipocrita sotto il quale l’uomo ama nascondersi e ci conduce in un mondo, soprattutto quello contadino, dove ogni cosa è rappresentata per quello che è e in maniera estrema - sesso, sentimenti, violenza, passioni - per rivelarci che cos’è l’uomo, quali sono le sue pulsioni, i suoi desideri più proibiti e segreti. 

Nel nuovo spettacolo il protagonista ha rimpianti per il passato. Lei ne ha? 
Nessun rimpianto, rifarei tutto ciò che ho fatto in quarant'anni di carriera e nella stessa maniera, proprio perché ci ho sempre messo passione e mi sono divertito.