Vita associativa

Aspettando il congresso

L’appuntamento di domenica 15 ottobre, dalle 10 nella ex chiesa di San Leonardo a Venezia, con il congresso annuale Fita Veneto, è di quelli da non perdere: non solo perché importante occasione d’incontro fra iscritti alla Federazione, ma anche perché il tema scelto per questa edizione interessa chiunque decida di mettere in scena un lavoro teatrale.

Al centro del dibattito infatti, come recita il titolo della giornata, vi è ciò che avviene “Dall’idea al palcoscenico”: nel passaggio, cioè, dalla “visione” dello spettacolo immaginato durante la lettura di un testo fino alla sua effettiva concretizzazione, soffermandosi sui singoli elementi della messinscena e su come renderli – singolarmente e nel loro complesso – chiari, coerenti e curati a dovere.
Invitati a discuterne sono stati il drammaturgo e storico del teatro Luigi Lunari, il docente Roberto Cuppone, la performer e formatrice Pierangela Allegro e il critico Franco De Maestri.
Tra consigli pratici e spunti di riflessione, un’occasione preziosa pure per soffermarsi sul ruolo del regista oggi, anche nel mondo amatoriale.
Per ripercorrere le strade che portarono, tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, alla nascita della regia, riproponiamo allora, in versione aggiornata, la monografia pubblicata in materia dalla nostra testata, inserita nella serie “Educare al teatro”: un modo per tornare alle origini e ai motivi che portarono alla definizione di questa figura, ora al centro di un profondo ripensamento.
Resoconto sul congresso sul sito di Fita Veneto: http://ow.ly/RXRj30fUrt1

LA NASCITA DELLA REGIA
di Alessandra Agosti

Prima di tutto, chiariamoci bene le idee. Il protagonista del nostro approfondimento è il “regista” in senso moderno e, di conseguenza, il “teatro di regia”. Niente a che vedere con un Eschilo o con un Sofocle che, da autori, “impostavano” i loro spettacoli nei teatri dell’antichità; e nemmeno, percorrendo a lunghi passi i secoli, con i capocomici delle compagnie dell’Arte, che davano le indicazioni necessarie agli attori/improvvisatori di quel particolare genere teatrale.
Il regista e il teatro di regia sono altra cosa. Per dirla con Silvio D’Amico (1887-1955), figura storica del teatro italiano, critico e teorico, il ruolo del regista «consiste nel capire il testo, estrarne la sostanza teatrale e, dalle pagine del copione, tradurla in quella materia della scena; e, a tal fine, sapere intonare e manovrare - anzitutto - gli attori, poi le scene e i costumi e le luci e, infine, se occorre, i macchinari e le musiche e le danze». Quindi: azione sul testo, interpretazione dello stesso, concretizzazione dell’idea e armonizzazione delle parti.
Per noi, oggi, tutto questo è assolutamente normale, tanto che anormale - anzi, impensabile e persino impossibile - sarebbe immaginare uno spettacolo teatrale senza l’intervento di un regista (singolo o molteplice che sia). Ma la situazione nella quale si sviluppò la figura del regista, in Europa e in Russia, era ben diversa da come è oggi e il passaggio dal vecchio al nuovo teatro fu tutt’altro che semplice e diretto. A dominare la scena erano infatti, sul finire dell’Ottocento, i cosiddetti “grandi attori”, veri e propri tiranni della prosa (e del melodramma), che facevano il bello e il cattivo tempo sul palcoscenico e dietro le quinte. Tutto ruotava attorno a loro e su di loro era impostata ogni parte dello spettacolo, dalla recitazione al movimento sulla scena, dalla scenografia a quant’altro, senza particolare attenzione né per l’allestimento nel suo complesso da un punto di vista tecnico, né tanto meno per la resa d’insieme dello spettacolo. Il primo a fare le spese di questa tirannide attorale - con le conseguenze più pesanti - era il testo, che veniva plasmato a piacimento dal mattatore di turno.

Il regista? Un figlio del capitalismo
Questa situazione si protraeva da secoli, ma qualcosa, sul finire dell’Ottocento, iniziò a muoversi. Numerosi i fattori da considerare: il malumore degli autori, che cominciarono a intervenire in maniera più decisa negli allestimenti nel tentativo di non veder massacrate le proprie opere; la nascita delle avanguardie in vari ambiti culturali, tra i quali il teatro; ma anche il cambiamento del teatro quale attività economica, come sottolinea tra gli altri, con particolare insistenza, Roberto Alonge1: l’esigenza di questa figura nacque, secondo lui, «nel punto esatto in cui s’impone e fiorisce la fabbrica capitalista. L’avvento della regia esprimerebbe cioè le forme e la struttura della matura società borghese. La rivoluzione industriale è proprio questo: il salto da una tipologia lavorativa artigianale, basata sulle capacità individuali del singolo, a una tipologia appunto industriale, fondata sulla qualità del lavoro collettivo, sull’armonizzazione di un team. Il teatro del regista sta al teatro dell’attore come la fabbrica sta alla bottega di mestiere».
Il mondo stava cambiando, insomma. Il lavoro passava sempre più da una dimensione artigianale a una dimensione industriale, le macchine si sostituivano alle sole braccia, i grandi numeri per il consumo di massa prendevano il sopravvento sul pezzo unico per il consumo ristretto di un’élite. E il teatro, secondo Alonge, si avviava a seguire la stessa strada. Il processo era dunque iniziato: il regista saliva, l’attore scendeva. Ma naturalmente, come abbiamo già detto, questo non fu un processo né breve né facile. La resistenza da parte degli attori fu notevole, soprattutto in Italia, dove infatti il teatro di regia si affermò assai più tardi che nel resto d’Europa.

L’origine: pareri discordi
Ma chi fu il padre della regia? Dove, quando e per intervento di chi si mise in moto quel processo che avrebbe portato a un cambiamento tanto radicale? Non possiamo dire che esista una data certa che sancisca la nascita della regia, né se ne può individuare un unico padre. Il già citato Roberto Alonge, ad esempio, si dichiara in disaccordo con quanti indicano come nucleo originario della moderna regia l’esperienza dei Meininger, intorno al 1870, seguita da quelle di André Antoine (1858-1943), di Konstantin Sergeevic Stanislavskij (1863-1938) e di altri, ai quali tutti, comunque, spetta un ruolo molto significativo nella definizione di questo nuovo ruolo nel mondo del teatro. Le perplessità di Alonge nascono soprattutto dal fatto che, a suo parere, risulta poco probabile che un cambiamento tanto epocale sia nato non nel cuore della realtà teatrale di allora - ossia Parigi - ma in un piccolo ducato della Germania, che non brillava certo per la propria cultura e attività in materia.
Già altri, comunque, avevano messo in evidenza questa incongruenza. Nel 1938, ad esempio, lo aveva fatto Marie-Antoinette Allevy2, ricordando l’uso, dal 1830 circa, dei “livrets scéniques” o “livrets de mise en scène” a beneficio degli allestimenti proposti in provincia: annotazioni di tipo non artistico-concettuale, ma puramente tecnico-pratico. Le preoccupazioni per le quali nascono i “livrets” non sono dunque affatto di natura artistica, ma soltanto economica: quel che si voleva era rendere lo spettacolo un prodotto seriale, e quindi vendibile su larga scala. Circa la datazione di questi libretti, la Allevy indica il 1827-28 come anno della loro apparizione, ma Alonge la sposta indietro nel tempo, riferendo di un articolo apparso sul “Courrier des Spectacles” del 20 maggio 1818 che riguardava “Le Château de Paluzzi”3, melodramma realizzazione del Teatro dell’Ambigu-Comique. Vi era scritto: «Segnaliamo quest’opera ai signori direttori di provincia come una fortunata speculazione; già numerose città fremeranno di spavento e di orrore al Château de Paluzzi, e noi crediamo di servire i loro interessi, dando qualche indicazione. Questa pièce non esige alcuna spesa né di scenografie né di costumi, i balletti possono essere soppressi, e la musica non è assolutamente necessaria se non nelle ultime scene del secondo atto».
È in questo ambiente teatrale che cominciano a farsi strada alcune nuove figure professionali, indispensabili soprattutto per coordinare i lavori nelle “riproduzioni seriali” in provincia degli spettacoli: nasceva così il “régisseur”.

Vari tipi di régisseur
Intorno al 1820 la lettura di vari periodici mette in luce l’esistenza di alcuni tipi di régisseurs, che si occupavano di mansioni diverse, che spaziavano dall’amministrazione vera e propria dello spettacolo alla scelta del repertorio, dal servizio generale per l’allestimento alla vendita. Tra le figure più curiose, da segnalare il “régisseur chargé des annonces”, che aveva l’incarico di dare agli spettatori comunicazioni di servizio, come la sostituzione di un attore o un improvviso cambio di programma. Quello che unisce tutte queste figure è comunque - va ribadito - il fatto che non vi è nulla di artistico in esse, avendo semplicemente una connotazione pratica, professionale. Da tutte queste si stacca in qualche modo, però, il “second régisseur, instituteur des chœurs” (‘maestro dei cori’) presente nel teatro d’opera, che accanto a mansioni “materiali” può anche coordinare i ‘cori’, cioè i cantanti. Al di sopra di lui c’è un “régisseur on chef”, responsabile in capo. In questo scenario, la formula “mise en scène” sta a indicare esclusivamente l’insieme delle operazioni strumentali necessarie allo spettacolo.

Il régisseur di provincia
In un articolo intitolato “Le Régisseur de Théâtre en Province” - riportato da Alonge - si legge che «il destino del régisseur (di provincia) è il peggiore di tutti. Peggio del direttore di teatro di provincia, che passa di fallimento in fallimento; peggio degli attori più scalcinati; ma peggio anche del macchinista e del suggeritore: ‘È lui che è incaricato di assegnare le parti agli attori (...). È ancora a lui che tocca la messinscena, è lui che si spreme il cervello ogni giorno per redigere un cartellone che accontenti gli abbonati (cosa non realizzabile, a memoria di régisseur); è lui che presiede alle prove, che ordina i costumi nuovi e le scenografie nuove. Durante la rappresentazione, sta dietro le quinte, il copione della pièce alla mano; dà agli attori il segnale di entrare e la frase di attacco’. (...) Ma non meno strepitosa - commenta Alonge - è l’epigrafe posta in testa all’articolo: ‘Il direttore (di provincia) scrisse allora al suo corrispondente di Parigi: ‘Inviatemi, subito, un individuo dotato di un vestito nero e di una spina dorsale di caucciù: ho bisogno di un régisseur’».

Fine Ottocento, qualcosa cambia
Il teatro era diventato un’industria e come tale andava trattato, anche nella scelta dei suoi addetti. Ma è pur vero che un po’ di considerazione in più, a un certo punto, il régisseur cominciò a ottenerla. Nel 1885, ad esempio, il critico teatrale Francisque Sarcey scriveva: «Ciò che oggi manca, e manca di più in più, è il régisseur. Sappiatelo, senza régisseur, niente attore. L’attore (salvo eccezioni, questo è sempre sottinteso) è una macchina la cui molla è il régisseur. Il régisseur è l’anima di un teatro. È ovvio che il direttore svolge spesso la funzione di régisseur; assumo la parola di régisseur nella sua accezione più larga: designa il “metteur en scène”, quale che sia il suo titolo ufficiale. (...) Gli attori, oggi soprattutto che il mestiere è così poco conosciuto, hanno bisogno di essere incessantemente consigliati, sostenuti, diretti, sorvegliati e, soprattutto, e prima di tutto, comandati. Non ci sono più direttori né régisseurs».
Sia stato per motivi prettamente amministrativi, di buona gestione dell’industria-teatro, o sia stato per qualche prima attenzione artistica nei confronti dello spettacolo, il risultato fu comunque che sul finire dell’Ottocento in Europa si cominciò a sentire l’esigenza di una mano unica che muovesse l’allestimento, sul versante tecnico e interpretativo.

Scendono in campo gli autori...
Ma la “mano” in questione non poteva essere quella dell’autore? La storia porta esempi significativi di autori coinvolti, chi più chi meno, nella messinscena delle proprie opere: dai tragici greci a Shakespeare, a Molière... Diversa la situazione con la Commedia dell’Arte, nella quale al capo della compagnia spettava il compito di “coordinare” in linea di massima l’andamento dell’improvvisazione di turno: questo non significava che egli potesse considerarsi “autore” dello spettacolo allestito, quanto al massimo “primo tra gli attori”. La situazione, come abbiamo visto, era degenerata con i “grandi attori” e il loro concentrare su di sé ogni aspetto dell’allestimento, testo compreso, che doveva adattarsi come un guanto al loro modo di recitare e far sì che la loro “stella” brillasse più di qualunque altra, sul palcoscenico.
Ma finché a essere messi in scena erano testi di autori del passato la cosa poteva non creare troppi problemi; ben diverso quando l’autore che vedeva fare a pezzi la propria opera era vivo e vegeto. Una “rivolta” contro questo stato di cose sarebbe stata dunque capitanata da autori viventi, come Goethe o Schiller o, ancora prima, Voltaire o Beaumarchais. D’altra parte era consuetudine - per esempio alla Comédie-Française - che nel caso di allestimenti di testi di autori contemporanei fosse l’autore stesso a occuparsi dello spettacolo, leggendo e spiegando il testo agli attori, che anzi era egli stesso a scegliere: un diritto, questo, che viene tra l’altro citato già in un numero del 1818 del “Courrier des Spectacles”. E in quello stesso articolo viene posto l’accento su una questione destinata ad attraversare la storia, tanto che ancora oggi essa non può dirsi risolta: ci si trovava all’epoca, ricorda Alonge, in una situazione un po’ confusa, «in cui - scriveva il redattore - i ruoli si intrecciano e si confondono. Sicché, importerebbe introdurre qualche distinzione netta: gli attori facciano gli attori (scrive il redattore dell’intervento). Non si può essere attore e régisseur al tempo stesso. Sembra banale, ma quasi cent’anni dopo, Antoine sarà ancora lì, a battagliare su questo punto. Non si può nemmeno essere autore e régisseur. Cosa sia veramente il régisseur a questa data precoce (1818) è abbastanza chiaro: qualcosa che assomiglia a un direttore amministrativo dei nostri teatri di oggi, o diciamo a un manager, a una sorta di sovrintendente».

I Meininger di Georg II
Il duca Georg II di Sassonia-Meiningen (1826-1914) si era sempre interessato di arte, musica, storia e soprattutto di teatro. Girava tutta l’Europa per assistere ai migliori spettacoli della sua epoca. Ed era un critico implacabile. In particolare, non sopportava che testi di grandi autori come Shakespeare fossero tagliati e distorti. Siccome il teatro che vedeva non gli andava a genio, nel 1866 decise di dar vita a una sua compagnia: una settantina di attori che si chiameranno “Meininger”, ossia “quelli di Meiningen”.
Georg II pensava a tutto, dalle scene ai costumi, ma affidò la regia a Ludwig Chornegk (1837-1891), suo stretto collaboratore. Misero in scena con grande successo - fecero tournée in tutta Europa - soprattutto classici, ma si cimentarono anche con qualche contemporaneo, come Ibsen. L’autoritarismo di Georg II nei confronti dei suoi attori divenne una leggenda, tanto più significativa in un periodo nel quale ancora forte era lo strapotere dei “grandi attori”, che si ostinavano a fare il bello e il cattivo tempo. C’è però da dire che gli attori di Georg II non erano professionisti, non dovevano difendere con le unghie la propria immagine di mattatori; e potevano persino accettare di vedersi affidate parti importanti solo a rotazione: cosa inaccettabile per chi viveva di teatro. Ma dietro questa rotazione si celava un elemento importante dell’esperienza dei Meininger, che segnò profondamente buona parte del teatro dell’epoca e successivo: non c’erano comparse di quart’ordine sul palcoscenico; anche la parte a prima vista più insignificante era affidata ad attori di buon livello e il risultato - che accese l’entusiasmo di molti “padri della regia” europei e russi - era un “insieme” armonico, con scene di massa straordinarie. Per la prima volta l’insieme contava più del singolo. Ebbe a parlarne anche André Antoine (1858-1943), che nel 1887 fondò il Théâtre Libre e fu grande ammiratore dei Meininger: «Non crediate con ciò che forzino la nota e che l’attenzione sia distolta dai protagonisti; no, il quadro resta completo e, da qualunque parte si posi lo sguardo, l’occhio cade sempre su un dettaglio della situazione o del carattere. In certi istanti è di una potenza incomparabile».
Una grande attezione era posta dal duca alla “veridicità storica” degli allestimenti, con una cura che influenzò tra gli altri Stanislavskij. In una lettera al direttore di teatro Paul Lindau, Georg II scriveva ad esempio: «Un condottiero lanzichenecco non può assumere la stessa posizione a piedi uniti di un galante abate dell’epoca dei codini o di un luogotenente in un salotto moderno». In un altro passo spiegava come andava indossato correttamente l’elmo: «La maniera corrente di portare l’elmo sulla parte posteriore della testa, sulla nuca, è un vezzo da tenore che nuoce a una buona rappresentazione teatrale. I nostri cari signori attori che si esibiscono nelle parti di ‘amorosi’ in costume, temono forse di mettere in disordine i loro riccioli portando l’elmo come si deve. Ma a noi questo non importa affatto».
Un altro capitolo importante dell’azione di Georg II riguarda poi la scenografia: nel suo teatro venne introdotta una tridimensionalità che ritroveremo perfezionata in personalità successive di grande spessore come Adolphe Appia, Georg Fuchs, Gordon Craig, Vsevolod Emilevic Mejerchol’d.

Appia: il sistema palcoscenico
Particolarmente colpito dal teatro di massa dei Meininger fu Adolphe Appia (1862-1928), che lavorò sul teatro come “opera d’arte vivente”. Al riguardo, Mirella Schino4 spiega come Appia sostenesse che «per creare vita, per non limitarsi a rispecchiare semplicemente in scena un frammento della natura, è necessario trattare l’intero spazio scenico, con tutto quello che comprende, come una cellula unitaria da manipolare.(...) Ma per creare una simile cellula e farla agire è necessario servirsi di strumenti efficaci e di principi. Sono appunto questi principi che Appia individuò nelle sue opere».
I suoi scritti più importanti si collocano tra il 1895 e il 1921: “La mise en scène du drame Wagnérien”, “Die Musik und die Inszenierung” e “L’Oeuvre d’art vivant”. Secondo Appia, commenta la studiosa, «sul palcoscenico si deve creare un “sistema complesso” proprio come avviene nella natura, ma non deve essere una copia di quello della natura. (...) La vera svolta operata dalla regia è nella scoperta di come si possa lavorare a partire dagli strati profondi - sulla base di strumenti di manipolazione sotterranea come spazio, tempo, percezione, azione, corpi umani - e non solo a partire dalla superficie, da ciò che vedono gli occhi. Il cuore del pensiero di Appia sta nel guardare al palcoscenico come a un luogo che va riempito sulla base di energie che non vengono dalla volontà di un singolo individuo, ma da elementi trasversali indipendenti dai caratteri o dalla volontà del singolo».
Dove stava la grandezza di Appia, così come quella di Craig, di Fuchs, di Mejerchol’d? Il passo avanti da loro compiuto, scrive ancora la Schino, «fu certamente un passaggio di stile, dal naturalismo al simbolismo, da un teatro realista a un teatro libero da legami con la verosimiglianza. (...) Con Appia e con Craig, con Mejerchol’d e con gli altri ‘formalisti’ (...) arrivò però una precisazione: il teatro non doveva rispecchiare la realtà. Doveva essere quintessenza della vita».
Per quanto riguarda Stanislavskij, anch’egli assistette a spettacoli dei Meininger e in alcuni scritti riportò le sue impressioni: in particolare, a colpirlo fu l’interpretazione che gli attori - guidati dal regista - davano del testo. Un approfondito lavoro sul testo, quindi, fu il passo in più compiuto da quella figura che ormai possiamo considerare, a tutti gli effetti, “regista”, passato dal semplice allestimento materiale di un testo alla sua interpretazione.
Naturalmente, non tutti esaltarono il lavoro dei Meininger da un punto di vista artistico: alcuni, come Mejerchol’d (che era fortemente critico nei confronti del realismo, scelta che gli costerà la vita, nell’Unione Sovietica stalinista), li bollarono come portatori di uno sterile teatro-museo; ma tutti riconobbero loro il merito di aver introdotto nel teatro quella disciplina che fino a quel momento non esisteva.

Interno Zola

Zola e Antoine: il teatro e la vita
Tornando al naturalismo, quando si parla delle innovazioni apportate nella realtà teatrale della sua epoca da André Antoine (1858-1943) non si può non partire dal pensiero di Emile Zola (1840-1902), del quale il regista fu estimatore e allievo. Zola, in estrema sintesi, era sconcertato dalle conseguenze dello strapotere degli attori sulla scena: tutto ciò, unito alla condivisa opinione dell’epoca che il teatro dovesse essere quanto più possibile lontano dalla vita vera, aveva condotto la prosa a una situazione che il filosofo naturalista considerava aberrante. In una serie di articoli pubblicati sul “Bien Public” e sul “Voltaire” e poi riuniti nel 1881 nel saggio “Naturalisme au theatre”, Zola indicava la strada del rinnovamento che Antoine applicò qualche anno più tardi al suo teatro, non a caso denominato Théâtre Libre. Libero, infatti, doveva essere il teatro secondo Zola: libero da stereotipi, dalla ricerca del successo sicuro; un obiettivo, quest’ultimo, che certamente Antoine non fece nulla per raggiungere, proponendo testi non commerciali, di autori come Tolstoj, Turgenev, Ibsen, Strindberg e l’italiano Verga, oltre naturalmente ai naturalisti francesi, come lo stesso Zola e i fratelli Congourt. Quella di Antoine fu una metodica marcia contro il dilagante “teatro d’attore”, lavorando sull’insieme e in difesa del testo, che divenne la base del suo lavoro registico. Il naturalismo imponeva inoltre ben precise scelte tecniche, come l’abbandono delle scenografie limitate a teli dipinti, assolutamente inverosimili, non credibili. La scena doveva così essere costruita e non più dipinta e l’attore vi si doveva muovere.
Tutto cominciava a cambiare, dunque. Come, lo spiega lo stesso Antoine: «I movimenti propriamente detti di messinscena saranno modificati: l’attore non uscirà più costantemente dal quadro dove si muove per atteggiarsi davanti al pubblico; si aggirerà tra i mobili, tra gli accessori, e il suo gioco scenico si arricchirà di queste mille sfumature e di questi mille particolari diventati indispensabili per fissare e comporre logicamente un personaggio. Sparendo il movimento propriamente meccanico, gli effetti di voce, i gesti empirici e ridondanti - con la semplificazione e il ritorno alla realtà dell’azione teatrale - l’attore sarà ricondotto ai gesti naturali e sostituirà con un lavoro di composizione gli effetti tratti unicamente dalla voce; le espressioni si appoggeranno su degli accessori familiari e reali, e una matita capovolta, una tazza rovesciata, saranno altrettanto significative, di un effetto altrettanto intenso sullo spirito dello spettatore, delle esagerazioni grandiloquenti del teatro romantico».
Come già visto per i Meininger, anche gli attori di Antoine non erano professionisti: un fattore importante, questo, per collocare nella giusta dimensione l’esperienza di tale regista. E altrettanto importante è un passaggio tratto da una lettera che Antoine scrisse a Charles Le Bargy, noto attore della Comédie-Française che gli aveva - incautamente - chiesto di aiutarlo a sostenere alcune sue osservazioni presso un autore, Francois de Curel, del quale interpretava un personaggio. Antoine si scagliò letteralmente contro di lui, utilizzando tra l’altro immagini che non possono non portare alla mente le future posizioni al riguardo di Gordon Craig (l’attore come “super-marionetta”). Scrisse dunque Antoine: «Io vorrei - e queste riflessioni non hanno altro scopo - tentare di convincerla che gli attori non conoscono mai niente delle pièces che devono recitare. Il loro mestiere è semplicemente di recitarle, di interpretare il meglio possibile dei personaggi la cui concezione sfugge loro; essi sono in realtà dei manichini, delle marionette più o meno perfezionate, a seconda del loro talento, che l’autore abbiglia e agita a suo piacere. (...) L’ideale assoluto dell’attore deve essere di diventare una tastiera, uno strumento (“instrument”) meravigliosamente accordato, che l’autore suonerà a suo gradimento. È sufficiente che una educazione tecnica puramente materiale abbia sciolto fisicamente il suo corpo, il suo volto, la sua voce e che una educazione intellettuale conveniente l’abbia messo in condizione di comprendere semplicemente ciò che l’autore lo incarica di esprimere. Se gli è chiesto di essere triste o allegro, egli deve, per essere un buon attore nel senso esatto del termine, esprimere al livello più alto la tristezza o l’allegria, senza valutare perché questi sentimenti gli sono chiesti. Questo, è affare dell’autore, che sa ciò che fa e che resta il solo responsabile davanti allo spettatore». Non si parla di “regista”, dunque, ma di “autore”, al cui servizio si muove quel regista che era però ancora un concetto astratto quando Antoine scrisse questa lettera al vetriolo a Le Bargy.
Poi le cose cambiarono, lo sappiamo. Tanto da arrivare non solo a una regia “interpretativa” - come interpretazione, cioè, di un testo che resta comunque alla base della rappresentazione - ma ad una regia “critica”, che svincola il regista da qualsiasi confine e dà un peso fondamentale (alla pari di quanto scritto nel testo) alle sue scelte. Questo nuovo approccio porterà alla cosiddetta “scrittura scenica”, introdotta nella pratica teatrale da Roger Planchon (1931-2009). In pratica, la costruzione del dramma non viene dal solo testo scritto (scrittura drammaturgica) ma anche dal testo scenico (scrittura scenica), che è “altro” dalla semplice riproduzione o interpretazione del primo5.

Interno Stanisl Locandiera1898

Arriva Stanislavskij
Quando si parla dei “grandi attori” di fine Ottocento si tende a farlo in maniera fortemente negativa. Ma occorre segnalare importanti eccezioni, che anzi ebbero un ruolo chiave nella nascita della regia e nello sviluppo della cultura teatrale in genere. Basti citare Eleonora Duse, non del tutto scevra da retaggi passatisti ma coraggiosa musa di artisti della nuova generazione, da Arrigo Boito a Gabriele D’Annunzio, e sperimentatrice delle nuove correnti registiche e scenografiche (si pensi a Craig). E ancora Ernesto Rossi o Tommaso Salvini: quest’ultimo, in particolare, ebbe una grande influenza su quello che da molti è considerato il vero padre della regia, Konstantin Sergeevic Alekseev, in arte Stanislavskij (1863 - 1938), che ne era rimasto affascinato dopo averlo visto recitare “Otello” a Mosca nel 1891.
Attingendo in parte da questa esperienza, in parte dall’ammirazione per il teatro dei Meininger (li aveva applauditi durante la tournée del 1890), Stanislavskij sul finire dell’Ottocento stava dunque elaborando la propria idea di nuovo teatro quando incontrò, nel 1897, l’insegnante di recitazione, critico e regista Vladimir Nemirovic-Dancenko. Dopo una lunga conversazione notturna, i due posero le basi per quello che sarebbe divenuto il grande Teatro d’Arte di Mosca, fondato l’anno successivo. In esso trovarono spazio gli attori non professionisti seguiti da Stanislavskij e gli allievi della scuola di Dancenko.

Un nuovo modo di essere attore
Furono molti i cambiamenti introdotti da Stanislavskij e Nemirovic-Dancenko nel modo stesso di intendere il teatro e l’attore. Cambiamenti che andarono dalle grandi teorie alla pratica quotidiana, ma che ebbero uguale importanza prima di tutto nell’innalzare la figura dell’attore, culturalmente e socialmente. Ricreare l’attore, reinventarlo: questo fu tra i primi obiettivi del Teatro d’Arte di Mosca. Si lavorava a tutto campo, dalla disciplina sul palcoscenico e fuori da esso allo stile della recitazione, che venne liberata dai clichés di stampo ottocentesco, fino alla ricerca di una credibilità nuova per quanto avveniva sulla scena. Proprio questa ricerca di veridicità porterà a registrare il Teatro d’Arte di Mosca alla voce “teatro naturalista”: e in effetti così fu, per un primo periodo; ma poi anche Stanislavskij cominciò a discostarsi da questo filone, andando oltre il realismo esteriore per approdare a un realismo interiore. Sul “realismo esteriore” Stanislavskij fece autocritica: in sostanza, disse, il teatro dell’epoca sceglieva la linea storico-di costume (sua l’espressione) perché non sapeva affrontare una messinscena se non dall’esterno. «Non conoscendo altre vie - scrisse al riguardo - gli attori affrontavano subito l’immagine esteriore. In questa ricerca ci mettevamo addosso ogni specie di costume, calzature, imbottiture, ci incollavamo nasi, barbe, baffi, indossavamo parrucche, cappelli, nella speranza di afferrare il sembiante, la voce, di sentire fisicamente il corpo del personaggio da rappresentare. Facevamo assegnamento sul puro caso, sulla fortuna, e una quantità di prove passava nella ricerca di queste cose. Tuttavia non tutto il male viene per nuocere: anche qui c’era di buono il fatto che gli artisti imparavano a impadronirsi della caratterizzazione esterna del personaggio; e questo è un lato importante della capacità creatrice dell’attore». Per passare dal realismo esteriore a quello “interiore”, però, mancava ancora un ingrediente: Anton Cechov.

Interno Cechov

Cechov, la nuova drammaturgia
Per compiere il passo successivo, occorreva dunque attendere l’incontro fra Teatro d’Arte di Mosca e drammaturgia di Anton Cechov (1860-1904). Qual era la differenza rispetto al passato? Sostanzialmente stava nel fatto che in Cechov... non succedeva niente di particolare: l’attenzione si spostava quindi dal fatto all’atmosfera. Stanislavskij si impegnò a creare quest’atmosfera, agendo soprattutto sui suoni (abbaiare di cani, voci lontane, rintocchi di campane). A tale proposito, lo stesso Stanislavskij raccontava un divertente aneddoto: «Un giorno Cechov disse forte a qualcuno, in modo che il regista sentisse: ‘Scriverò un nuovo dramma, che incomincerà così: ‘Che meraviglia, che silenzio! Non si odono né uccelli, né cani, né cuculi, né civette, né usignoli, né orologi, né campanelli e nemmeno un grillo canterino’»6.
Cambiò il modo di recitare e l’attenzione del regista si spostò dal testo all’attore. Cambiò pure l’atteggiamento del regista, che superò la posizione dispotica dei Meininger creando una forma di interazione con l’interprete. Nel 1898 il Teatro d’Arte mise in scena “Il gabbiano” di Cechov: per il Teatro fu il primo grande successo e secondo molti studiosi ciò segnerebbe la vera nascita della regia. Tra gli esempi di lavori registici di Stanislavskij ricordiamo “Il giardino dei ciliegi” (l’ultima opera di Cechov) e l’“Otello”, allestito nel 1896, ma rimasto in lui tutta la vita come un pensiero fisso, fino alla seconda regia del 1930, condotta a distanza mentre si trovava a Nizza, malato di cuore. Le lettere di Stanislavski mostrano come egli curasse anche il minimo dettaglio e straordinario è il suo lavoro sul sottotesto, sull’analisi dei personaggi: nelle sue note si ritrovano le riflessioni che egli compiva, a ruota libera, sui vari protagonisti, da Desdemona al Moro; attraverso queste riflessioni egli stabiliva non solo la forma del singolo, ma anche la relazione esistente tra i vari personaggi.
Molto importante fu poi l’“Hamlet” messo in scena nel 1912 al Teatro di Mosca a quattro mani con Gordon Craig. A differenza di Stanislavskij, l’inglese era decisamente anti-naturalista, e stava ideando un sistema di scenografie basato sui cosiddetti “screens”, grandi rettangoli mobili. Fu lui, inoltre, a proporre l’idea dell’attore come “super-marionetta”. Ma il lavoro a più mani non era facile: Craig era insofferente alla vita a Mosca e lasciava operare, in sua vece, un altro regista del Teatro d’Arte, Leopold Antonovic Sulerzickij (detto Suler); inoltre non c’era accordo di fondo tra lui e Stanislavskij, che aveva una visione molto diversa del testo e dei personaggi shakespeariani. “Hamlet” non piacque a Craig, che arrivò a dire: «Hanno preso i miei screens ma hanno tolto allo spettacolo la mia anima».

Mejerchol’d, arte e tragedia
Nel 1905 Stanislavskij aprì il suo Teatro-Studio e a dirigerlo chiamò Vsevolod Emilevic Mejerchol’d (1874-1940), tra i suoi allievi preferiti. La visione registica dei due non coincideva e le discussioni non mancavano: in particolare, Mejerchol’d non condivideva quello che riteneva essere un naturalismo eccessivo nello stile del maestro. Contro questa visione, nel suo testo “Sul teatro” del 1913, Mejerchol’d proponeva un teatro della convenzione, nel quale attore e spettatore sono consapevoli l’uno dell’altro e ciascuno lo è del proprio ruolo. Liberato dalla scenografia e da qualsiasi altro “eccesso naturalistico”, l’attore lavorava sempre più su se stesso. Mejerchol’d insisteva su materie come ginnastica, acrobazia, improvvisazione, tecniche della Commedia dell’Arte e del teatro giapponese.
Mentre cresceva la sua sperimentazione, cresceva anche il coinvolgimento con la politica dell’Unione Sovietica. Nel 1921, così scriveva: «Compagni, è indispensabile uscire da quelle scatolette che sono i palcoscenici e organizzare invece spettacoli di massa. Occorre trasferire la propria attività, specialmente al sud, all’aria aperta. E non soltanto nelle giornate festive di maggio e di ottobre. Il nostro compito più immediato è il lavoro nelle campagne, insieme con l’organizzazione di izbe-sale di lettura» (da “La rivoluzione teatrale”).
C’era una forte spinta in avanti nel suo pensiero teatrale, che arrivò ad attingere - con una vicinanza solo apparentemente stridente - al “modello Taylor” o taylorismo7 dell’industria americana. D’altra parte, Mejerchol’d considerava l’arte come lavoro, non come riposo o passatempo; come tale, doveva quindi modernizzarsi per stare al passo con i tempi e fare grande l’Unione Sovietica. Ma fu proprio a questo punto che iniziò a crearsi quella crepa tra Mejerchol’d e il regime sovietico che diventerà il baratro nel quale il regista si perderà, freddato da un plotone d’esecuzione dopo anni di dolori, torture e umiliazioni. L’idea di Mejerchol’d era infatti rivoluzionaria, mentre il regime sovietico in quegli anni stava diventando reazionario, impegnato nel recupero di un teatro-teatro, lontano anni luce dal teatro-sperimentazione desiderato dal regista. Il regime preferiva insomma la controllabile proposta teatrale di Stanislavskij a quella sperimentale (e quindi potenzialmente rischiosa) di Mejerchol’d.
Il regista non si fermò e portò avanti la sua idea, concretizzandola anche attraverso una disciplina di sua invenzione, la biomeccanica, che trattava il corpo dell’attore esattamente come una macchina, da conoscere e mantenere in perfette condizioni. Rovesciando il modello di Stanislavskij, Mejerchol’d abbandonò l’impostazione psicologica del personaggio e puntò su un apprendistato della fisicità: vi era qualcosa di simile a quello che sarà lo straniamento di Brecht e che allontanava dal teatro di parola e dall’introspezione psicologica. Ma un concetto come quello dello straniamento non poteva certo accordarsi con il desiderio di controllo totale proprio del regime sovietico.
Tra i lavori più significativi di Mejerchol’d vanno ricordati “Balagancik o La baracca dei saltimbanchi” di Akeksandr Blok e “Il revisore” di Nikolaj Gogol’, allestito nel 1926, nel quale il regista fuse tutte le più recenti ricerche in campo registico, dando grande spazio alla musica, al movimento e alla cura dei dettagli.

Da Piscator a Brecht: il teatro politico
C’è una notevole vicinanza tra la Russia dei Soviet e la Germania della Lega di Spartaco8 e così tra Mejerchol’d e Brecht. Fu in questa atmosfera che si sviluppò il “teatro politico” o - nel senso aristotelico di non-drammatico - il “teatro epico”.
In Germania il primo nome importante del teatro politico fu quello di Erwin Piscator (1893-1966). Fu lui il primo a usare materiale vario per gli spettacoli: documenti, fotografie, interviste, didascalie. Fu profondamente influenzato da alcune esperienze sovietiche, come il teatro del Proletkult e le Bluse Blu.
Ricordando anche le esperienze di Walter Gropius (1883-1969) e di Max Reinhardt (1873-1943), fu però con Brecht che il teatro si allontanò esplicitamente dall’introspezione psicologica. Così il drammaturgo scriveva nel 1926: «Io sono per il teatro epico! La regia deve elaborare i fatti sostanziali nel modo più sobrio e obiettivo. Il senso di un lavoro, oggigiorno, viene il più delle volte obliterato proprio perché l’attore recita insinuandosi nel cuore dello spettatore. I personaggi vengono fatti accettare a forza di lusinghe, e quindi falsati. Contrariamente alla consuetudine finora seguita, dovrebbero invece venir presentati allo spettatore in modo freddo, obiettivo, classico. Perché non sono oggetto di immedesimazione, ma devono essere capiti». È lo “straniamento” (in tedesco ‘Verfremdung’) che Brecht richiedeva nei suoi allestimenti.

Interno LivingTheatre

Il Living Theatre di Malina e Beck
Una delle grandi battaglie portate avanti dal “nuovo teatro” del Novecento fu quello di superare il rischio di mercificazione dello spettacolo indotto dalla società dei consumi. La ricerca di un recupero della sacralità del momento teatrale, dell’incontro tra attore e spettatore, fu al centro dell’attività del Living Theatre, fondato a New York nel 1947 per iniziativa di Judith Malina, allieva di Piscator, e di suo marito Julian Beck, che proveniva invece dalla New York School.
Furono loro, nel 1958, a curare la traduzione in inglese de “Il teatro e il suo doppio” di Antonin Artaud. La sua opera, nel periodo della nascita della regia, era stata molto significativa: «Egli - aveva scritto Jacques Copeau alla morte di Artaud - ci ha riportato ai grandi ed eterni principi. Ora siamo in possesso di un principio scenico, siamo in pace. Possiamo lavorare sul dramma, sull’autore, invece di lambiccarci eternamente il cervello su formule scenografiche più o meno originali, su nuovi sistemi. Tutto ciò che è stato fatto dopo di lui ha avuto origine da lui, ed è stato, col passare del tempo, più o meno deformato».
Fedeli al suo insegnamento, i fondatori del Living cercavano di realizzare uno spettacolo che colpisse nel profondo, che non potesse lasciare indifferenti: così come il “teatro della crudeltà” teorizzato appunto da Artaud. Il loro primo spettacolo fu “The Brig” di Kenneth H. Brown, del 1963, che raccontava le violenze in una prigione per marines: gli attori, in scena, si scambiavano colpi veri, tanto che dovevano alternarsi nei ruoli per non subire danni fisici. Quello che volevano ottenere i registi era l’azione imitativa riflessa: «Quando viene sferrato il primo pugno nella prigione ancora buia prima dell’alba e il prigioniero freme di dolore e abbandona vacillando il suo attenti superbamente rigido, la contrazione del suo corpo si ripete dentro il corpo dello spettatore. Cioè, se abbiamo successo, vi è una contrazione reale, fisica, misurabile nel corpo dello spettatore»9.
L’esperienza del Living Theatre arrivò anche in Europa e in Italia nel luglio di quel 1968 che segna uno spartiacque fondamentale nella cultura del ‘900. Al Festival di Avignone il Living portò “Paradise Now”, che mostrava in pieno la rottura della barriera tra palcoscenico e platea. Lo spettacolo fece scandalo: «Era il periodo della liberazione sessuale - ricorda la Malina - ed erano molte le persone nel gruppo disposte a fare realmente l’amore con gli spettatori. Alcuni di noi l’hanno fatto, altri no»10. Lo stesso spettacolo fu rappresentato a Milano nel novembre del 1969, e Roberto De Monticelli ne scrisse: «Vedo anche i giovani del pubblico che, aderendo all’invito iniziale degli attori, s’erano denudati e, rimasti in slip, sedevano con loro in cerchio sulla pista, la loro partecipazione limitandosi (ma che potevano fare?) alla solidarietà del nudo. Ricordo, del pubblico, un ragazza un po’ grassotta, che pure aveva aderito all’invito e stava lì, in mutandine e reggipetto bianchi, castissima e patetica, addirittura casalinga, con le sue ciccine fuori, e l’aria, a quel punto, di non saper che fare». De Monticelli coglieva però i risvolti politici dell’esibizione: «È un piccolo, patetico, innocuo comizio anarchico, con esortazioni alla rivoluzione non violenta. Ora, in questo momento di grande tensione e di lotte popolari (non dimentichiamo che si era nel 1969, quando ai moti studenteschi del ‘68 si era unita la lotta operaia [ndr]), in un Paese dove esistono un partito comunista che raccoglie oltre otto milioni di voti e una contestazione, studentesca e non, che elabora su ben altre basi i motivi del proprio rifiuto ed è all’attacco su una quantità di fronti, il nebbioso misticismo orientaleggiante di questi americani è una prova di candore: d’un candore che disarma»11.
L’esperienza del Living andava comunque oltre il teatro: era una società che si muoveva in una società che stava cambiando; per dirla con il regista Peter Brook: «Una trentina di persone, tra uomini e donne, vivono e lavorano insieme, fanno l’amore, mettono al mondo figli, recitano, inventano testi drammatici, praticano esercizi fisici e spirituali, condividono e discutono tutto ciò che incontrano sul loro cammino. Prima di tutto sono una comunità; ma lo sono soltanto perché insieme hanno una funzione speciale che dà significato alla vita in comune: recitare» (da “Lo spazio vuoto” del 1968).

Grotowski, il Teatro Laboratorio
Un altro personaggio importante per comprendere la nascita e lo sviluppo della regia è Jerzy Grotowski (1933-1999) che nel 1959 fondò il Teatro Laboratorio. La sua proposta partiva dal confronto con il cinema e la Tv, contro i quali - considerava Grotowski - il teatro non poteva (e non può) vincere sul fronte tecnico. Il teatro deve insomma ammettere i suoi limiti, accettarsi come “teatro povero” e ritrovare in questa sua specificità la propria forza. Esso ha infatti qualcosa che né il cinema né la televisione hanno: una presenza viva, in carne e ossa, della quale lo spettatore può sentire il respiro, l’energia diretta, non mediata da uno schermo. Come già nel Living e come in Brook o in Barba, nel teatro di Grotovski il testo conta relativamente: quel che conta è l’incontro in tutte le sue sfaccettature, tra regista e attore, tra attore e spettatore. Come per Stanislavkij, infine, ciò che per lui ha importanza più ancora dello spettacolo in sé è la sua preparazione: le prove più che l’andare in scena; il lavoro con gli attori più ancora dell’applauso del pubblico.

Interno Odin Teatret

Eugenio Barba e l’Odin Teatret
Nel ‘64, dopo aver operato per due anni nel Teatro Laboratorio di Grotowski, l’italiano Eugenio Barba fondò in Danimarca l’Odin Teatret. Alla base del suo metodo registico, lunghissime prove, durante le quali gli attori improvvisano: su tutto questo materiale il regista poi interviene, sistemando, perfezionando, montando. Le sue rappresentazioni sono senza una trama apparente, ricche di enigmaticità. Un concetto che Barba spiega così: «Con gli anni mi piace far crescere un tipo di spettacolo in cui, all’inizio, né io né gli attori riusciamo a immaginare la storia che stiamo raccontando. Dobbiamo scoprire non solo come raccontarla, ma anche che cosa stiamo raccontando. Solo lo spettacolo a cui daremo vita ci può in parte svelare che cosa volevamo dire. (...) Quando l’autore ha scritto un testo, ha costruito una sfinge. Lui non conosce l’enigma della sfinge. È compito del regista e degli attori risolverlo. Nel momento in cui lo fanno, creano una nuova sfinge di cui non sanno decifrare l’enigma, ciò spetta ad altri - appunto agli spettatori (...). Non si insisterà mai abbastanza sull’importanza dello spettatore. È lui che alla fine decide il senso di ciò che gli viene mostrato».

La nascita della regia in Italia
Come detto, i grandi cambiamenti avvenuti nel resto d’Europa e in Russia si fecero sentire anche in Italia, ma con un certo ritardo.
Un ruolo fondamentale ebbe, al riguardo, Silvio D’Amico, fondatore nel 1936 dell’Accademia nazionale d’arte drammatica (che oggi gli è intitolata). Fu lui a volere tra i docenti della scuola anche l’attrice e regista russa Tatiana Pavlova (1894-1975), alla quale affidò la prima cattedra di regia in Italia.
Dopo quel gap iniziale, l’Italia seppe proporre personalità di primissimo piano nel campo della regia teatrale. Fra gli altri, si possono citare Luchino Visconti, Giorgio Strehler, Gianfranco De Bosio, Luigi Squarzina, Luca Ronconi, Orazio Costa, Maurizio Scaparro, Leo De Berardinis: solo esempi, naturalmente, per quanto straordinari per profondità e carica innovativa.

NOTE
1. Nel suo studio “Il teatro dei registi”, Biblioteca Universale, Ed. Laterza, 2006. Lo stesso riferimento bibliografico vale per le altre citazioni di Alonge contenute nel capitolo.

2. In uno studio intitolato “La mise en scène en France dans la première moitié du dix-neuvième siècle”.

3. L’opera è di Anne-Honoré-Joseph Duveyrier detto Mélésville, Jean-Toussaint Merle e Eugène de Cantiran Boirie.

4. “La nascita della regia teatrale”, di Schino Mirella, Editore Laterza - collana Biblioteca universale Laterza, 2005.

5. Per saperne di più si può consultare “La scrittura scenica”, Giuseppe Bartolucci, Lerici, Roma, 1968.

6. L’episodio è ricordato da Roberto Alonge ne "Il teatro dei registi", Biblioteca Universale, Ed. Laterza, 2006.

7. Si tratta di una teoria sull’organizzazione d’impresa elaborata da Frederick Winslow Taylor, esposta nel 1911 nella sua opera “L’organizzazione scientifica del lavoro”.

8. Fu un movimento rivoluzionario socialista e pacifista fondato tra gli altri da Rosa Luxemburg in Germania durante la prima guerra mondiale. Il nome era ispirato a Spartaco, capo di una rivolta degli schiavi contro Roma. Fu il nucleo originale del Partito Comunista tedesco e aspirava ad attuare una rivoluzione simile a quella contro i Bolscevichi in Russia. Il movimento fu represso nel sangue dal governo di Berlino nel 1919.

9. Da “Il lavoro del Living Theatre / materiali 1952-1969”, Ubulibri, 2000, traduzione di Franco Quadri.

10. Da "Conversazioni con Judith Malina. L’arte, l’anarchia, il Living Theatre", trad. it. Elèuthera, Milano 1995, di C. Valenti.

11. Da “Le mille notti del critico. Trentacinque anni di teatro vissuti e raccontati da uno spettatore di professione”, Bulzoni, Roma 1997, vol. II.

 

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