Cultura

Sugana e la Saga dei Barbo

Un approfondimento di Luigi Lunari su Luigi Sugana e in particolare sulla sua "saga dei Barbo", al centro della nostra nuova tappa del Progetto Teatro Veneto. Insieme al drammaturgo e storico del teatro ripercorriamo queste significative pagine dell'autore, che raccontò, sul palcoscenico, l'evoluzione della sua terra attraverso le vicende di una famiglia veneziana.

Ad introduzione e commento degli "Ultmi Paruconi" di Luigi Sugana che pubblichiamo in questo numero di Fitainforma, proponiamo qui la lettura dellle pagine che Luigi Lunari dedica a questo autore nella sua "Storia del Teatro veneto" (Ergon Edizioni, per conto di Fita Veneto) Vicenza 2003.

interno piccolo LUIGI LUNAR

di Luigi Lunari

Di nobile famiglia, nato a Treviso nel 1857, ma sempre vissuto a Venezia, ove morirà nel 1904, Luigi Sugana - “patrizio senza feudi e avvocato senza cause” come egli stesso si definì - fu giornalista, pittore, scenografo, cultore della storia e delle tradizioni venete; esuberante e travolgente, parlatore affascinante, bohèmien... Il suo stesso aspetto fisico era particolare: aveva una gran barba rossiccia, un naso aquilino, grosse mani nodose e una gamba anchilosata. Di giorno dormiva, e le notti le passava in un piccolo caffè, al proprietario del quale lascerà morendo tutte le sue carte. Di notte scriveva, masticando sigari, bevendo caffè, discorrendo con frequentatori abituali e clienti di passaggio. La sua casa assomigliava al negozio di un rigattiere, piena di mobili di ogni stile: erano i mobili che egli aveva commissionato, in un momento di crisi, agli intagliatori, agli ebanisti, agli stippettai di Venezia rimasti senza lavoro, pagandoli generosamente, e con l’intento di rifarsi eventualmente, rivendendoli una volta passata la crisi. Per questo si era rovinato, dissipando un patrimonio di centomila lire, sostenendo peraltro che “quando si hanno soltanto centomila lire, averle o non averle è la stessa cosa”. Parlava sempre a voce alta e tonante, dava del tu a tutti, e tutti chiamava “compare”, abbreviato in “pare”. A teatro pensava a voce alta, apostrofando gli attori anche durante la rappresentazione: “Ciò, pare, una comedia come questa, mi la scrivo in un’ora!” Oppure: “Pare, sta scena qua la me piase più de quell’altra!” (1).

Alla storia dell’amata Venezia, Sugana dedicò sette commedie e drammi che mi sembra giusto raccogliere sotto il titolo della “Saga dei Barbo”, dal nome della famiglia che ne è la protagonista, e che coprono l’arco di tempo che va dalla fine dell’indipendenza veneta (1797) all’annessione del Veneto al Regno d’Italia dopo la guerra d’indipendenza del 1866. Abbiamo detto a suo tempo che “La saga dei Barbo” è l’unica opera (assieme alla “Politica dei villani” del Pittarini) in cui si evidenzi un riferimento agli eventi storici del tempo. (E sarà anche un caso, ma non si può non notare l’analogia tra il Pittarini che si rovina per aiutare i contadini del vicentino, e il Sugana che fa altrettanto per gli artigiani di Venezia!).
“La saga dei Barbo” è impresa assai rara nella storia della letteratura drammatica: i suoi analoghi - per quello che riguarda la letteratura italiana - si trovano semmai nella narrativa: nei “Cent’anni” di Rovani e ne “I vicerè” di De Roberto, che usciva proprio in quegli anni, nel 1894.
Una nota singolare nella “Saga” è che tutti i sette drammi si svolgono in un’unica scena: il salone di Palazzo Barbo, nelle cui modificazioni attraverso i decenni tocchiamo con mano l’avvicendarsi degli eventi e il mutare delle situazioni:(2) è in quest’unica, emblematica ambientazione che vediamo succedersi in scena figli e nipoti del capostipite, il vecchio Zaneto Barbo, protagonista del primo episodio. Della “Saga dei Barbo” - che meriterebbe un’adeguata riproposta scenica, ma che potrebbe anche fornire materia per uno sceneggiato televisivo - raccontiamo la trama.
“Gli ultimi parrucconi”. L’azione si svolge per intero il 22 maggio 1797, alla vigilia della caduta della Repubblica nelle mani di Napoleone. In casa di Zaneto Barbo, procuratore di San Marco, giunge un emissario di Napoleone, a saggiare gli umori in vista della svolta politica che si sta determinando. Dei due figli di Zaneto - Piero e Marco - il primo è dalla parte dei francesi, in nome delle nuove libertà nate con la Rivoluzione dell’89, che le armate napoleoniche stanno divulgando in tutta Europa. Marco invece si schiera contro i francesi, assieme al vecchio aristocratico Francesco Pesaro, la cui nipote Marina gli è stata promessa in sposa. Quando il governo della Repubblica decide la resa ai francesi, il vecchio Pesaro decide di lasciare la patria; mentre le donne - prima fra tutte la moglie di Piero - già discutono su quali toilettes indossare di fronte ai vincitori, che per quanto soldati e rivoluzionari, vengono pur sempre dalla mitica ed elegante Parigi. La stessa divisione tra indipendentisti e francofili si verifica tra i servi, tra i quali spicca un ragazzino di nome Memi Strussia, che sarà tra i protagonisti di drammi successivi. Il dramma si chiude con la partenza di Francesco Pesaro per l’esilio, e con i festeggiamenti per le nozze di Marina e Marco.
“I francesi a Venezia”. Un atto unico, quasi un finale del testo precedente. I francesi sono entrati in Venezia, e proprio a casa Barbo hanno posto il loro quartier generale. I vincitori si comportano con arroganza e prepotenza, e si delineano i vari atteggiamenti e le reazioni dei veneziani - e dei membri di casa Barbo - tra i quali l’autore distingue gli illusi e i profittatori. Giunge la notizia che il Doge verrà in casa Barbo, non si sa se ad omaggiare o ad affrontare i francesi. Il generale Janot si rifiuta in un primo tempo di riceverlo, ma il vecchio Barbo ha un’impennata di orgoglio, e il Doge entra in casa Barbo accolto con tutti gli onori dovuti a un sovrano.
“Come le onde”. Forse il momento meno riuscito del grande affresco, copre il periodo che va dall’occupazione francese alla sconfitta di Napoleone a Lipsia e al ritorno degli austriaci. E’ nel quadro di questi eventi storici - sempre vissuti attraverso le vicende dei Barbo e del popolo veneziano - che all’antico ideale della repubblica veneziana indipendente subentra il sorgere di una coscienza nazionale, che guarda ormai all’unità d’Italia e che genererà la lotta risorgimentale, avendo come antagonista il regime sempre più oppressivo imposto dall’impero austro-ungarico.
“El gran sogno”. Sono passati molti anni: il vecchio Zaneto è morto, Piero e Marco e le loro mogli sono anch’essi morti o invecchiati, alla ribalta è ormai la terza generazione: i figli di Piero, ligi all’impero, mentre Bepi - figlio di Marco - tiene vivo il patriottismo del padre. Tra i protagonisti anche Memi Strussia, fattosi uomo, tipica figura - non priva di qualche retorica - del servo fedele e affezionato. Tema di questo quarto episodio è il “grande sogno” che anima la parentesi repubblicana e rivoluzionaria del 1848: dal 22 marzo, giorno dello scoppio insurrezionale, al nuovo ritorno degli austriaci dopo che l’assedio - e la fredda logica della politica internazionale - hanno stroncato la resistenza veneziana. Bepi viene ferito, gli invasori non mancheranno di perquisire la casa, e nello smarrimento generale è la vecchia Marina a prendere in mano la situazione, e a curare che si brucino i documenti e le carte compromettenti. Ma l’ufficiale che si presenta per la perquisizione è un ungherese: anche lui membro di un popolo privato della sua libertà, e in fondo più solidale con i veneziani che col potere che rappresenta.
“El fator galantomo”. Tema di questo episodio, che si colloca alla vigilia dell’annessione all’Italia, è la decadenza della famiglia dei Barbo, troppo oscillante e incerta tra le tante opzioni della storia, incapace di difendersi tra gli sciacalli che vengono generati ad ogni cambiamento di regime. Bepi è morto, conservando intatto l’ideale patriottico, martire della guerra contro l’Austria. Vive ancora Marina, troppo vecchia per contrastare la piega che le cose hanno preso, anche per colpa dei deboli figli di Bepi - Gigi e Nene. Gigi conta di risollevare le sorti della famiglia sposando la figlia di un nuovo ricco, ex-austriacante, antico fattore in casa Barbo, che si era arricchito alle loro spalle. Per evitare la rovina, il “fattore galantuomo”, l’ormai vecchio Memi Strussia, col pretesto di riammodernare la casa vende gli antichi mobili e i preziosi dipinti di casa. Ma alla fine la grande dimora patrizia dei Barbo dovrà essere venduta: i vecchi padroni se ne vanno, nella grande casa rimane solo Memi, che pure riesce a persuadere Gigi a rinunciare alle nozze. E Memi muore, nella casa vuota, come Firs nel “Giardino dei ciliegi”:
“Casa vecia, paroni novi”. Nel grande salone di casa Barbo vediamo ora - nel ruolo di nuovi padroni, un altro ramo dei Barbo. Il capofamiglia è Alvise, figlio di Piero (il fratello di Bepi), il cui figlio - anch’egli Piero - ha sposato proprio la donna su cui aveva brevemente contato Gigi. Anche a causa di questo matrimonio, la famiglia è ora divisa da un odio profondo: da un lato i nuovi padroni, dall’altro lato Gigi e Nene. Il dramma - dal punto di vista dei contenuti e delle vicende individuali dei personaggi - sembra piegare la saga verso toni e vicende di sapore più privato e tradizionale, anche se il tutto è dichiaratamente inquadrato nel processo di una nuova classe borghese ora del tutto “italiana”.
“Casa restaurada”. La saga dei Barbo si conclude: a gettare un ponte sul baratro d’odio che si era scavato tra Piero e Gigi, ecco - abbastanza puntuale - una storia d’amore tra i loro figli. Gigi ritorna nella vecchia casa, ma il dialogo tra i cugini si rivela impossibile. Gigi sembra avvertire come divisioni ed odi familiari siano ormai un vuoto retaggio di tempi lontani superati: una nuova generazione si sta affacciando alla ribalta della storia, e questa nuova generazione ha altri miti ed altri traguardi, che egli fatica a condividere e forse anche a capire. Gigi finirà - per così dire - con l’arrendersi e abbandonare la partita, lasciando Venezia e rifugiandosi tra i monti del Cadore. La saga dei Barbo si chiude qui: con l’immagine di una generazione che appare felice e soddisfatta, e che vive spensieratamente una “epoca bella” su cui peraltro si proiettano le ombre minacciose di un futuro incerto, e che - col senno di poi - noi sappiamo correre verso la prima grande guerra.

(1) Copio - letteralmente - queste righe da una bella pagina, rara e dimenticata, di Renato Simoni. In “Gli assenti”, Milano 1929, pp.139-145
(2) Un consimile esempio moderno lo trovo nel film “La famiglia” di Ettore Scola (1987).

 

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