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L'intervista

David Conati

Vulcanico ma metodico. Fantasioso ma razionalissimo. Instancabile. Acuto. Pungente. È David Conati, il supereroe della scrittura, una vera e propria macchina sforna-testi capace di confezionarti su due piedi una storia partendo da qualsiasi cosa e arrivando a qualsiasi altra, tra voli dell’immaginazione, percorsi semiseri nella letteratura, gustosi affondi musical-narrativi nella tradizione.

E non solo per il teatro, si badi bene: perché l’inesauribile sorgente di parole dell’autore veronese zampilla senza sosta ed è pronta a trasformarsi in copioni, romanzi, manuali, canzoni, spot pubblicitari e via così. L’ispirazione? Per lui è una leggenda metropolitana o giù di lì. E comunque, quando la scrittura diventa un lavoro a tempo pieno, contano di più metodo, costanza, disciplina, un buon team e un’organizzazione di ferro. Senza dimenticare la regola d’oro: leggere, leggere e ancora leggere.
Davanti a una tazzina di caffè e a una bustina di zucchero (ignara protagonista di una storia creata lì per lì), Conati ci ha raccontato la sua esperienza, le sue regole, la sua idea di teatro.

di Alessandra Agosti

Insegnare (e imparare) a scrivere narrativa e insegnare (e imparare) a scrivere per il teatro. Differenze?
Si differenzia la tecnica di base. Ci sono elementi tipici della scrittura teatrale che non riguardano la narrativa, ma spesso chi scrive narrativa è convinto di poterlo fare anche per il teatro; in realtà è più facile il contrario, perché la scrittura per il teatro è “per azioni” e insegnandola occorre far capire ad una persona come trasformare un concetto in azione e come tutto cambi a seconda del punto di vista. Inoltre fornisci una serie di strumenti per poter capire come si legge un testo, come lo si struttura e quali limiti può avere.

Leggere, insomma, è fondamentale per scrivere anche quando si parli di teatro?
Se non impari a leggere un testo, come fai a scriverlo? È come dire: “Voglio fare il meccanico”; bene: impariamo com’è fatto il motore, quali sono le sue parti, come funziona e perché un motore funziona meglio di un altro.

Ma “guardare” il teatro è altrettanto importante?
È una seconda fase. Naturalmente, il drammaturgo può lavorare sulla carta e fin da questo momento una regia esiste già. Per questo, quando dici: “Vado a vedere La locandiera di Carlo Goldoni, regia di Pinco Pallino”, in realtà la regia è di Carlo Goldoni se tu hai preso il testo e l’hai messo in scena esattamente come l’ha scritto lui, con le stesse indicazioni. Di regia non hai fatto niente.

Quindi, dal suo punto di vista, quando si può parlare di regia?
La regia ti deve fornire una chiave di lettura diversa da quella che è la semplice riproposizione del testo. Io leggo il testo e me lo immagino (lo facciamo tutti quando leggiamo); se leggi un’opera di Goldoni e la metti in scena come l’ha scritta...

Ma il “come l’ha scritta” non crede dipenda da “come io la leggo”? E il mio modo di leggerla sarà comunque diverso dal suo...
Intendo dire che non considero “regia” il mettere in scena un testo esattamente ed esclusivamente riproponendo le indicazioni date dall’autore, seguendo le didascalie, senza metterci nulla - non dico di innovativo - ma almeno con una chiave di lettura diversa, alla quale subito non si pensa. Ma questo viene dopo. Prima di tutto all’autore spetta il compito di scrivere un testo che sulla carta funzioni. Se fornisci al regista un testo che sta in piedi, lui poi potrà divertirsi a colorarlo; ma se non sta in piedi di partenza, non si va da nessuna parte.

Per stare in piedi cosa deve avere?
Ci sono delle tecniche. Personalmente considero essenziali alcuni elementi. Il testo deve avere ritmo. Ci deve essere qualcosa da dire: e non necessariamente qualcosa di alto (certi testi non dicono niente, ma lo fanno benissimo). E ancora, come autore devi avere le idee chiare: se non le hai chiare tu, il regista non potrà che complicarle. Poi è importante avere una visione complessiva: il 95 per cento della gente pensa che il testo teatrale sia il copione; non è vero: il copione è uno degli elementi di un testo teatrale, che parte prima di tutto dall’azione, esattamente come il cinema parte dall’immagine e la narrativa dal racconto. Inoltre, mai annoiare. E tagliare piuttosto che allungare. Detto questo, chiaramente, nei miei corsi non spiego il metodo, ma un metodo di lavoro: quello che è stato insegnato a me.

David Conati al lavoro, con il figlio
David Conati al lavoro, con il figlio

La quantità di lavori che ha firmato è impressionante...
Ricordo un fatto: alcuni anni fa, durante una cena nel Veronese, ad un certo punto un assessore ha cominciato a chiedere perché Conati non arrivava. Lo guardo e gli dico: “Veramente sono qua”. E lui: “Ma non può essere lei: è troppo giovane”...

Scrivendo così tanto, come fa con l’ispirazione?
L’ispirazione non esiste. O meglio, l’ispirazione è una scusa dietro alla quale si nascondono quelli che non hanno idee per andare avanti. Ma come? Esci, guardati attorno! Ci sono trentamila motivi di ispirazione. Mogol lo diceva sempre: “Raccontate le piccole cose; se raccontate bene una piccola cosa, state sicuri che attirate l’attenzione”. Vogliamo immaginare, per esempio, la storia di una bustina di zucchero? Si può fare. Qualsiasi cosa può essere raccontata. Quando diventa un mestiere, insomma, è questione di metodo e l’idea la trovi ovunque. Come si costruisce un’idea è una delle cose che si insegnano ai seminari di scrittura creativa. L’ispirazione te la costruisci, perché sei curioso, perché ti fai tante domande…

Lei lavora principalmente su commissione?
Sì. Ho un amico che insegna e scrive romanzi: lui scrive un romanzo e poi cerca un contratto; io parto dal contratto, poi mi metto a scrivere. Adesso, ad esempio, ho una lista di una dozzina di lavori attaccata al computer.

Ma concretamente, che cosa le permette, a neanche cinquant’anni, di aver scritto così tanto?
Intanto mi alzo presto la mattina. Sembra una battuta, ma non lo è. C’è gente che mi dice: “Mi sono svegliato all’alba”. Poi scopro che si è alzato alle 7.30: io a quell’ora ho già finito di scrivere il primo atto di una commedia. Al di là dello scherzo, è fondamentale lavorare molto, darsi delle regole, essere metodici. Io non faccio un altro lavoro, tipo insegnare o simili; il mio lavoro è questo: io scrivo testi, dagli spot pubblicitari fino...

... a un testo che vince un festival importante?
Sì, perché no? Anche se di solito i testi che vincono i premi poi non vanno in scena: li usi come curriculum, ma non fanno date.

Conati in Veronesi tuti mati (foto Elio Scardovelli)
David Conati (foto Elio Scardovelli)

La sua giornata tipo?
Quando non sono in tour o non ho impegni con studenti o laboratori, dalle 6 alle 8.30 sono in studio. Alle 8.40 torno a casa a prendere mia figlia e la porto alla scuola materna. Torno in studio fino alle 12 (scrivo, studio, rispondo alle mail, preparo preventivi e bozze, traduco, discuto con registi, editori, collaboratori). Alle 12.40 torno a scuola a prendere mia figlia e vado a casa per pranzo. Alle 14.30 torno in studio (scrivo, studio, correggo, rileggo, rispondo alle mail, preparo bozze). A volte stacco alle 18, a volte alle 19, a seconda delle scadenze. Torno a casa, sto un po’ con i pargoli, do una mano per la cena; dopo cena niente TV per i bimbi: leggiamo una storia e poi tutti a letto, al massimo per le 21.30. A questo punto, se sono in prossimità di qualche scadenza editoriale o teatrale riprendo a scrivere, ma da casa; altre volte, crollo stremato sul divano.

Adesso facciamo un esempio concreto. Se le chiedessi di scrivere un testo teatrale?
Perfetto. Per chi è il testo?

Studenti-attori di un’università della terza età...
E il pubblico da chi sarà composto? Perché gli attori potrebbero essere anziani ma gli spettatori potrebbero essere bambini di una scuola d’infanzia...

L’autore non scrive mai per se stesso? Deve sempre scrivere per attori e spettatori precisi?
Per me sì. Io sono un artigiano. E comunque, per un testo teatrale, è fondamentale sapere chi lo rappresenta e a chi è rivolto, perché il linguaggio cambia completamente: se scrivi per un pubblico di adolescenti ci sono regole narrative specifiche, parole che puoi usare e altre no; quindi, di uno stesso argomento scriverai in maniera diversa se il testo è destinato a bambini di seconda elementare o a ragazzi delle superiori, e se non colleghi bene quello che vuoi dire tu con il destinatorio rischi di sbagliare, complicando troppo o, al contrario, semplificando eccessivamente.

Proseguiamo...
Parto da un’idea e, altrettanto importante, devo già sapere come finisce la storia: è essenziale. Deciso il percorso, lo strutturo in un tot di tappe. È un po’ come dire: so che voglio andare da Verona a Capo Nord (e questa è la storia). Venti giorni? Venti scene. Scena uno: stazione di Verona. Scena due: cambio al Brennero. Scena tre: arrivo alla frontiera tedesca. E così via. Poi succede che capitino degli imprevisti: così, può essere che a Monaco di Baviera mi rompo una gamba, sto quattro giorni in ospedale, mi innamoro dell’infermiera, mi sposo e apro uno stand all’Oktoberfest. Una storia diversa, ma una storia è nata comunque. L’importante è avere idee chiare e concretizzarle.

Anna Valle in Confidenze troppo intime
Anna Valle in Confidenze troppo intime

Insomma, è tutta questione di mestiere?
Il mestiere ti insegna come procedere, nella preparazione, nella stesura. Per esempio, fondamentale è documentarsi. Come ripeto sempre, per scrivere dieci parole devo leggerne almeno cento. Leggendo le idee ti vengono. Personalmente, io leggo sempre, di tutto.  Ma torniamo al nostro viaggio a Capo Nord. Il tragitto può essere fatto in treno, a piedi, in bicicletta, in macchina, in autostop, in aereo o... in risciò. Devo farmi domande: che strada faccio se passo di qua? E se passo di là? È un lavoro continuo, anche di ricostruzione: vado avanti, torno indietro.

Finita la prima stesura, chi rilegge?
In genere Elisa Cordioli, la mia compagna. È brava, attenta e precisa. Dopo le sue osservazioni, sistemo il testo e lo passo al regista. Ci tengo a sottolineare che una cosa importante per poter tenere in piedi tutto è creare un team di lavoro; in questo senso i corsi di teatro sono dei vivai: cerco di dare opportunità a ragazzi che hanno talento. Affido loro incarichi diversi, dalla scalettatura delle scene a qualche traccia; poi parto da lì, vedo quello che mi interessa e quello che voglio cambiare; magari chiedo la base di un dialogo che poi analizzo, cambio, elaboro alla mia maniera. Aggiungo, tolgo, modifico. Come nella bottega di un pittore. Diciamo che nella prima parte discutiamo isieme - ed è molto utile - poi vado avanti io fino alla fine. Anche questo spesso aiuta a far venire fuori le idee. Non sono mai stato un autarchico.

Quanto conta per lei sapere quale regista realizzerà un suo testo?  
Oggi è fondamentale. Non scrivo più lavori da lanciare così, senza sapere chi li allestirà; né scrivo più se non sono sicuro che il testo in questione sarà concretizzato. Propongo il testo a qualche regista e poi, in base a chi accetta la proposta, so come scriverlo.

Ma così non teme di perdere il “suo” modo di scrivere?
No. Il mio stile c’è sempre: giochi di parole, umorismo...

Com’è il suo regista ideale?
È fondamentale che ci sia intesa. Ne ho alcuni di riferimento, che mi piacciono perché sono rispettosi del testo e sanno vedere oltre. Il regista ideale deve essere curioso, non rigido, deve divertirsi, avere un buon livello di ironia e autoironia. È impossibile mettere in scena un testo mio se uno non cerca anche un po’ di giocare e di trovare chiavi di lettura diverse. Ma vale anche per i drammi, non solo per il brillante. E deve crederci, deve mettersi in gioco, aver voglia di cambiare.

Le capita mai il blocco dello scrittore?
Il blocco dello scrittore non esiste, come fa ad esistere? Certo, il momento di crisi arriva, è inevitabile: ma la soluzione c’è sempre. Anzi, a volte è più divertente quando si crea un problema, perché devi trovare soluzioni che non siano scontate, immediate o già usate.

Pensa mai di essersi trasformato in una macchina?
La base di tutto è che mi diverto. A volte è faticosissimo, ma mi diverto sempre e tanto. Entro in studio alle 6 di mattina, con la lista attaccata al computer che mi guarda, con le scadenze scritte. Fisso la lista e dico: “Porca miseria...vabbè, ce la posso fare”.

Riesce a lavorare a una sola cosa in una giornata?
È praticamente impossibile, a meno che non abbia una scadenza imminente e allora lavoro anche dieci ore di fila solo su quella cosa. Però avere più testi in rotazione aiuta, quando hai uno di quei momenti di crisi di cui abbiamo parlato: lasci lì, vai avanti su un’altra cosa e spesso, quando non ci pensi, è più facile che poi la soluzione ti arrivi, perché se ti intestardisci non vedi anche cose evidenti.

Bisogno di silenzio?
No, io scrivo anche in stazione, anche a casa con i figli che mi urlano intorno. Lavoro al computer, perché sono più veloce e sto dietro al pensiero in tempo reale: penso e scrivo. Il tutto restando collegato con il resto del mondo, ma dipende dalla fase di lavoro. Gli appunti invece, importantissimi, li prendo su carta, su taccuini che guardo, riguardo, rileggo.

Lei scrive di tutto, passa dalla narrativa al teatro, alla canzone. Come ci riesce?
Non è un problema, anzi diversificare aiuta. Per esempio, dopo aver lavorato qualche ora su un libro per la scuola... un farsa aiuta: ti sfoghi.

Il teatro che le piace?
Quello che offre uno spunto differente da quanto ho già visto cento volte. Non dev’essere per forza una cosa che stravolge tutto: può essere anche una cosa piccola, ma che ti sorprende.

Conati in compagnia di Giuseppe Manfridi, autore che stima
Conati in compagnia di Giuseppe Manfridi, autore che stima

Qualche autore?
Tra i contemporanei, Duccio Camerini, geniale, molto bravo anche nei drammi: mi piacciono i suoi improvvisi cambi di prospettiva. Restando su livelli alti, ci sono Stefano Benni e Giuseppe Manfridi. Interessante anche Michael Frayn, per certi giochi. Andando più indietro nel tempo, i nomi sono tanti: Brecht, che ho letto tutto, come Beckett, Pinter, Ibsen... Più indietro ancora, il solito Guglielmino Scuotilancia, William Shakespeare; ma il suo problema è che tutti hanno sempre troppa paura di toccarlo. Mi piace anche Molière, perché faceva un teatro musicale. E Goldoni, perché ci sono cose ineguagliabili, pur accanto ad altre “di mestiere”.

I suoi testi sono orientati al brillante. Perché?
Perché sono quelli che ti permettono di mantenere la famiglia. Nel professionismo, chi mette in scena drammi e tragedie ormai lo fa solo perché prende i contributi del Fus, altrimenti non lo farebbe...   

Ma il registro brillante è anche nella sua indole...
Senz’altro. Dovendo scrivere una tragedia, magari tendo a mettere in luce gli aspetti grotteschi o ironici di una situazione.

Lei è inteprete di alcuni suoi lavori. Com’è successo?
È stato quasi inevitabile, perché c’erano cose che secondo me avevano un valore ma non c’era nessuno disponibile, per un motivo o per l’altro. Ho fatto di necessità virtù.

Come si trova sul palco?
Per i primi trenta secondi sono terrorizzato, poi mi diverto come un matto. Il vantaggio di scrivere per me? Mi permette di cambiare il copione ogni volta, senza doverlo chiedere a nessuno.

Perché il suo lavoro le piace?
Mi ha sempre affascinato la comunicazione, l’uso del linguaggio in sé. Ai tempi delle medie sognavo di iscrivermi al Dams, ma mio padre non voleva. Dopo il biennio mi sono iscritto a una scuola che mi ha permesso di mantenermi da solo (la scuola per infermieri professionali) e a quel punto ho cominciato a studiare quello che volevo. Durante la settimana lavoravo, poi la sera e nei fine settimana seguivo corsi su corsi, in zona e in giro per l’Italia. Mi piaceva e ho deciso di investire in quello.

Ha iniziato come scrittore o  come musicista?
Seguendo tante attività. Facevo parte di una compagnia amatoriale, il Teatro Prova di San Bonifacio, scrivevo qualche canzone... Proprio con Teatro Prova ho cominciato ad offrirmi per scrivere dei testi e Antonella Diamante, la regista, mi ha dato carta bianca: ho cominciato ad adattare dei classici, poi a proporre cose originali, che sono state tutte messe in scena; anzi, alcune girano ancora. Evidentemente funzionavano.

Quando ha deciso di farne la sua professione?
Nel 1997 mi chiama il direttore generale dell’ente per il quale lavoravo, che gestiva parecchie strutture per anziani. Mi propone una promozione, ma avrei dovuto dare un taglio alle attività extra. Era un bell’incarico, economicamente vantaggioso. Stavo per accettare. Ma si sono bruciati con una cosa che mi hanno detto proprio sulla porta: “Comunque lei è una persona fortunata, perché quando andrà in pensione non si annoierà di certo”. Lì è scattato qualcosa. Mi sono detto: “Ma io, perché devo aspettare di andare in pensione per fare quello che mi piace?”. Il tempo di scendere le scale e arrivare a casa e avevo già deciso. Ne ho parlato in famiglia: la situazione era abbastanza tranquilla, ho chiesto cinque anni di tempo con l’accordo che, se non avessi ottenuto niente, avrei bruciato tutto e non ci avrei più pensato. Il fatto è che non volevo arrivare un giorno ad avere il rimpiato per qualcosa che non avevo nemmeno provato a fare. Lavoravo in una casa di riposo, incontravo un sacco di gente che aveva rimpianti. Così ho deciso, perché non c’è un secondo tempo: ce n’è uno e basta, è tutto in diretta. Mi sono licenziato. Il giorno dopo mi hanno chiamato: “Forse non ci siamo capiti, non volevamo che lei si licenziasse”. Ho risposto: “Vi siete spiegati perfettamente”. Non hanno accolto le mie dimissioni e mi hanno dato sei mesi di aspettativa non retribuita per motivi di salute: per loro, uno che a 28 anni si licenzia da un posto fisso evidentemente stava male. Quando mia madre l’ha saputo, se non ha fatto un coccolone ci è mancato poco. Oggi è la mia fan più sfegatata. Alla fine mi ha detto: “Ci ho messo un po’, ma poi ho capito e hai fatto bene”.

Antonio Catania ne Il prestito, testo tradotto da Conati
Antonio Catania ne Il prestito

Alle traduzioni come è arrivato?
Nel 2004 ho avuto un periodo di stallo e ho pensato alla possibilità di dedicarmi anche alle traduzioni, visto che spagnolo e francese li conoscevo bene. Ho mandato una email all’Argentores, la Siae argentina, dicendo che ero un giovane autore teatrale italiano, disponibile a tradurre testi contemporanei da lanciare in Italia. Non chiedevo niente, tranne una percentuale come di consueto, ma se funzionava volevo l’esclusiva per un tot di anni. Mi sono arrivate valanghe di email. Da allora, di due autori argentini ho addirittura l’esclusiva a vita per tutta l’Europa.

E per i testi francesi?
Sono andato a Parigi a vedere che cosa c’era di buono in cartellone. Ho visto Tè alla menta o tè al limone, una farsa, ma di quelle che funzionano alla grande. Sono andato in camerino e ho chiesto il copione all’autore, Patrick Haudecoeur, che era anche il protagonista dello spettacolo. Lui me l’ha dato, ma mi ha detto che se volevo tradurlo dovevo contattare l’agenzia Paola D’Arborio, perché i diritti per l’Italia li avevano loro. Tornato a casa, ho inviato una mail all’agenzia. Loro mi hanno chiesto chi ero, perché volevo tradurlo e se era una cosa scolastica. Ho detto di no, che ero in contatto con diverse compagnie (che tra l’altro, quando hanno saputo che stavo traducendo questo testo, hanno fatto la fila per averlo). A quel punto mi hanno risposto che se volevo potevo anche farlo, ma che la traduzione doveva andar bene all’autore, altrimenti non se ne sarebbe fatto niente. In venti giorni l’ho tradotto e spedito. A Haudecoeur è piaciuta tanto che mi ha mandato altri due testi da tradurre. Allora Paola mi ha detto: “Sei veloce. Mi tradurresti anche questo, questo e questo?”. Lì il lavoro è decollato. Oggi ho una cinquantina di traduzioni all’attivo, di cui almeno quindici sono attualmente in circuito.

Perché le sue traduzioni funzionano?
È una questione di linguaggio. Molte traduzioni sono accademiche, non parlano come parla la gente: il segreto è rendere il testo fruibile per il pubblico del momento. Paola D’Arborio mi sta facendo ritradurre diversi testi che non vengono più messi in scena solo perché il linguaggio è vecchio. Io ascolto, mi immagino i personaggi che parlano seduti al bar, voglio che siano credibili. In narrativa va bene rispettare la sintassi, ma nei dialoghi no: non è che la gente parli tutta forbita, con i congiuntivi sempre a posto. Anzi. Molti testi teatrali, invece, sono costruiti proprio così e li senti finti. Chi scrive narrativa e si cimenta nella scrittura teatrale lo vedi anche per questo, perché spesso le manca l’immediatezza del linguaggio.

Dov’è, secondo lei, il limite tra il “liberamente tratto” e il copiato?
Prendiamo Titanic. Smontiamolo. È la storia di due ragazzi di condizione diversa che si innamorano; tutti ostacolano il loro amore; ma loro sono tenaci e lo portano avanti; un lutto li separa per sempre. Che storia è? Potrei dire che Titanic è liberamente tratto da Romeo e Giulietta e, con una battuta alla Bartezzaghi, potrei dire che hanno fatto un cambio di consonante: hanno preso il balcone ed è diventato il barcone. Capita anche con la narrativa. “Questo testo è originalissimo!”, mi dice qualcuno: poi lo smonto ed è Caino e Abele, I fratelli Karamazov, Romolo e Remo... Il fatto è che le strutture narrative che funzionano sono una ventina (anzi, Calvino direbbe che sono solo due), e tutta la narrativa è costruita su quelle. Ai ragazzini che partecipano ai laboratori chiedo di dividere i romanzi in due categorie: viaggio o guerra. Dagli Appennini alle Ande? Viaggio. La guerra dei bottoni? Guerra. I ragazzi della via Pal? Combattono: guerra. Il milione? Viaggio. È un giochetto, ma è per far capire che le strutture vertono attorno a un contrasto o a uno che si sposta (certo il viaggio può non essere fisico ma spirituale, temporale o altro; prendi Il deserto dei tartari di Buzzati: lui non si sposta, è il tempo che si muove). Ti fai delle domande e analizzi. Cito ancora Mogol, secondo il quale la bravura di un autore non è scrivere cose nuove, ma dare nuova vita a cose vecchie. A volte, come nel caso della Locandiera/Locandeira, può bastare fare un anagramma del titolo per scoprire scenari inediti; ma non è sempre detto che i registi lo capiscano...

 

Biografia
David Conati è nato a Negrar (Verona) il 28 gennaio 1968. Ha vissuto in Spagna, frequentandovi le scuole dell’obbligo e apprendendo fin da piccolo la lingua.  
Autore e compositore, “katalizzAutore” e “incantAutore”, ha lavorato con Tito Schipa jr, Gino e Michele, Mogol. Collabora come traduttore per diverse agenzie. Ha scritto oltre un centinaio di testi teatrali, molti per ragazzi, alcuni premiati a importanti festival nazionali.
Collabora con Gruppo Editoriale Raffaello, Edizioni Corsare, Coccolebooks, Lightbox Edizioni, Il Mulino a Vento, Del Miglio Editore, La Medusa Editrice, Melamusic, Edizioni Paoline ed Edizioni Sonda, per i quali ha scritto molti testi di parascolastica, manuali educativi, guide didattiche e narrativa per ragazzi. Dal 2000 si occupa, inoltre, di laboratori di scrittura creativa e teatro con gli alunni della scuola Primaria e Secondaria.
Nel 2012 la “sua” O.D.I.S.S.E.A. è diventata una lezione-spettacolo per gli alunni della scuola Secondaria, nella quale Conati è protagonista insieme al disegnatore Andrea Sbrogiò (ha collaborato anche con Toni Vedù, pittore, disegnatore e vignettista prematuramente scomparso nel 2015). Ha firmato anche I.N.F.E.R.N.O. con le musiche originali composte da Giordano Bruno Tedeschi. Insieme a Tedeschi e Marco Pasetto, attualmente Conati è impegnato anche con gli spettacoli serali Veronesi tuti mati e Noi veneti. Tutte le sue produzioni sono distribuite da Cikale Operose.
Nel suo sito internet, della propria attività Conati scrive tra l’altro: «Da diversi anni, dopo essersi specializzato in molti ambiti artistico-didattici, propone laboratori coinvolgenti rivolti agli alunni della scuola Primaria, Secondaria e ai docenti. La finalità principale è quella di avvicinare i ragazzi alla scrittura attraverso la lettura, sia per arrivare a produrre elaborati originali, sia per realizzare riscritture curiose, inedite e soprattutto mai banali.

Fra i testi per il teatro
Vicini di casa > Tu la conosci Giulia? > Tè alla menta o tè al limone (traduzione) > Indovina chi sviene a cena (ovvero la teoria dei pinguini) > Confidenze troppo intime (traduzione) > Arlecchin tartuffo > Cose da Pazzi > La ricompensa > Cenerentole in cerca d’autore > Checosex (traduzione) > Italiani (dal romanzo di Tim Parks) > Allegre comari di Windsor (adattamento) > Romeo e Giulietta (adattamento) > Delitto imperfetto in casa Fiaschetto > La sbetega sorada > Scioping > O.D.I.S.S.E.A. (Ovunque Dovessi Imbarcarti Stai Sempre Estremamente Attento) > La cena dei serpenti > Reality Life Show > Cercasi suicida disperatamente > Agenzia NLG (Non Lavoriamo Gratis) > Meglio tardi che mai > Il nonnetto dove lo metto? > Mani di libertà > I Mozart alle nozze di Figaro > La locandeira > L’osto de Verona > Parlami d’amore (traduzione) > Delitto sul set delle soap > Molto rumore per nulla (adattamento) > Pene d’amor perdute (adattamento) > Tutto esaurito (Imbroglioni fino in fondo) > 50 ma non li dimostra > Popolar varietà > Veronesi tutti mati > El canto de le sirene > A morire vanno sempre gli altri > Dora un caso d’isteria (traduzione) > La statua in frantumi > Noi Veneti > I.N.F.E.R.N.O. (Impuri Nella Fossa Eternamente Restano Nell’Ombra) > Il matrimonio nuoce gravemente alla salute (traduzione) > Esercizi di stile su Cappuccetto Rosso > Waterproof > Ieri è un altro giorno (traduzione) > Il prestito (traduzione) > Peter Pan, il soldato > il bagno (traduzione) > MOMO (traduzione) > Il mistero della dama bianca (traduzione) > Il paradosso di Schrodinger (traduzione) > Le ragazze di Travolta (traduzione) > I.P.R.O.M.E.S.S.I.S.P.O.S.I. (intimorito parroco rimanda oltre matrimonio esponendo sposa sicari innominato salverà provvidenza onore signorina imprigionata)