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Cultura

La prostituta nel teatro borghese -

Nomen omen. Se “prostituta” è – secondo l’etimo – “colei che si mette in vendita”, tutta una serie di sinonimi di vario sapore ne differenziano l’apparenza e la sostanza. Dai volgari “troia” e “vacca” (prevaricanti e offensivi nei riguardi di due onestissimi animali), agli eufemistici “peripatetica” e “lucciola”, ai colti e letterari “etera” e “cortigiana”, agli spregiativi “baldracca”, “bagascia”, “sgualdrina”, e chi più ne ha più ne metta…. fino a quel geniale anonimo che ha dimostrato come tutte queste galanterie siano il frutto di un ributtante maschilismo che fa sì che ogni attribuzione maschile, se volta al femminile, acquisti un pesante senso negativo. Così - ad esempio – se “un massaggiatore” è un kinesiterapista; “uno zoccolo” è un tipo di calzatura;  e “uno squillo” è un segnale telefonico… beh, per una “massaggiatrice”, una “zoccola” e una “squillo”… non c’è partita: sono tre mignotte.
Alessandra Agosti, plenipotenziaria di Fitainforma, mi chiede una lectio magistralis  sulla presenza, la funzione e il ruolo della “prostituta” nella letteratura drammatica e nella pratica del palcoscenico. Ebbene, devo dire che la riflessione e la ricerca cui mi sono volonterosamente dedicato hanno dato un esito sorprendente: come quando su Internet cercate qualcosa, e il computer risponde “Nessun elemento corrisponde al dato richiesto”. Sembrerebbe che in teatro di prostitute ce ne siano molto meno di quante non ce ne sono nel vasto mondo. La loro presenza dovrebbe essere un’invariante, e  invece non è così. Non ci sono prostitute nelle opere di Molière, in quelle del Goldoni, di Marivaux, di Ibsen, di Cechov, di Feydeau, di Miller… fino al povero Lunari, che di questa lacuna sembra accorgersi soltanto adesso. La spiegazione non è peraltro difficile: gli autori citati – e i molti che a loro si confanno – scrivono per lo più per un ambiente sociale molto “perbene” o hanno comunque ben altri bersagli che non i piccoli e privati vizi delle prostitute e dei loro clienti. Prendiamo ad esempio il Goldoni: il suo messaggio davvero rivoluzionario (di cui si accorse puntualmente Carlo Gozzi) non vuole correre il rischio di scivolare su qualche buccia di banana; per cui – dettato da sana prudenza – non ci sono puttane nei suoi centosettanta testi teatrali come non ci sono sacerdoti, o riti sacramentali, o funzionari pubblici. E così si può dire di Molière, di Ibsen, di Miller, e dei loro ben più alti impegni morali e sociali.
Vi è comunque, in quest’ambito, una curiosa nota marginale. Le prostitute – in questo ambito di rispettabilità borghese – compaiono solo nella veste di ex. Così accade nella “Professione della signora Warren“ di G.B.Shaw (1902), dove la protagonista, però, non tanto si redime quanto si promuove a maitresse d’alto bordo; così è per  ”Anna Christie” di O’Neill  (1921), prostituta a tutti gli effetti  dopo una violenza subita da bambina, ma che trova redenzione nell’amore. Così ancora in “Filumena Marturano”  (1946), unico titolo di Eduardo dedicato a una donna, e forse uno dei più straordinari personaggi femminili di tutti i tempi, ex prostituta ben più timorata e rispettosa di quella “Putain respectuese” o “Sgualdrina timorata” che Sartre scrisse in quello stesso 1946 (dio, come tutto coincide!) e che è prostituta per accidente, più che per necessità di sostanza. Filumena ha esercitato la prostituzione in totale purezza e innocenza: lei non ha dovuto operare nessuna scelta tra il Bene e il Male dell’albero della conoscenza; è nata ed è stata così com’è, “prima del peccato originale”, al pari di quella Vergine Maria cui rivolge la celeberrima preghiera. Eccetera eccetera: devo tornare sul tema.
Dove sono dunque le prostitute, nel timorato e rispettoso teatro borghese? Le possiamo trovare sotto due profili; 1) nel teatro che - in una società ancora strutturata su un modello aristocratico - si rivolge ad una borghesia non ancora egemone, lontana ancora dal potere, ma già presente con una straordinaria potenzialità ideologica e culturale; 2) in quella letteratura che – in età borghese  - si pone in un atteggiamento di critica aperta contro l’involuzione della borghesia in senso sempre più conservatore e reazionario.
Al primo caso appartiene, ad esempio, la commedia rinascimentale italiana, in cui spicca quel capolavoro che è il “Dialogo di Messer Pietro Aretino, nel quale la Nanna insegna alla Pippa sua figliola a esser puttana” (1534): un vero esempio di teatralissima prosa che anticipa di più di un secolo, per esattezza ideologica e limpidezza espositiva,  il Galileo dei “Massimi sistemi” (1642).  
Per il secondo caso non vi è che l’imbarazzo della scelta: si va dal “Monologo della puttana in manicomio” in “Tutta casa, letto e chiesa" (1977) di Dario Fo fino alle origini stesse del XX secolo, quando Arthur Schnitzler pone la figura della prostituta come vero e proprio Alfa e Omega di un “Girotondo” (1900) emblematico della struttura stessa di una società in decadenza e disumanizzata. Più rari, per contro, i testi drammatici che pongono in primo piano non tanto il personaggio della prostituta, quanto l’ambiente in cui la prostituzione è di casa, come il bordello o la casa di malaffare. E qui – con licenza dei superiori  devo citare almeno “Tarantella con un piede solo”  del sottoscritto (1961, Napoli, con  la regia di Andrea Camilleri) che fu oggetto di un pesantissimo attacco censorio, peraltro conclusosi con un nulla di fatto, e che si svolge appunto in un albergo compiacente. Allo stesso modo, va citato un brillante testo dello spagnolo Jaime Salom, “Les demoiselles d’Avignon” (1999) ispirato al celeberrimo quadro di Picasso, e che si svolge in un bordello di Barcellona (Avignon è rue Avignon) dove Picasso, giovane e squattrinato, soggiornò a lungo assieme alle “signorine”.

Ma ancora due note, prima di concludere. La prima riguarda il fatto che soprattutto nell’età che abbiamo definito preborghese, la figura centrale di tutti gli intrighi amorosi che riempiono il teatro non è la prostituta ma la mezzana, la ruffiana. È lei che si dà da fare, è lei che fa da tramite tra il maschio innamorato e voglioso e la sposa o la fanciulla concupita e desiderata da irretire, da persuadere, da convincere. Già nel 1499, nella “Tragicommedia di Calisto e Melibea” dello spagnolo Fernando de Rojas, il personaggio principale è la vecchia ruffiana Celestina, che finirà col dare il nome alla commedia e che diventerà simbolo ed eroe eponimo della propria professione. Questo ruolo lo troveremo esaltato e sfruttato appieno in quel momento di grande libertà e licenza espressiva che fu il Rinascimento toscano; dove l’Aretino identificò i tre “stati” della donna – oltre alla già citata condizione della puttana – quello della “maritata” e della “ruffiana”. Un ruolo che ritroveremo addirittura più di un secolo dopo in Molière, nella “Scuola delle mogli” (1662), dove appunto una ruffiana (seppure soltanto “narrata”) tenta la virtù di Agnese a favore di Orazio, mittente e – come diremmo oggi - utilizzatore finale. In questo caso – certo con un occhio alla rispettabilità formale del pubblico cui era destinata – lo scopo cui mira la ruffianeria è il matrimonio, ma si tratta di una configurazione (chiamiamola così) di pura facciata.  Tornando al Rinascimento, come non ricordare, quel sommo capolavoro, ancor oggi presente sulle scene, che è “La mandragola” di Machiavelli (forse 1515), dove il ruolo di ruffiano è consegnato – con ben altra valenza ideologica – al personaggio di fra’ Timoteo.
La seconda – e conclusiva – nota, astrae un poco dall’ambito in cui ci siamo mantenuti, per risalire alla figura della “donna” nella storia o potremmo dire nella Storia. In quel battito di ciglia in cui sono racchiusi i cinquemila anni della nostra documentata esperienza – e dunque senza considerare epoche di diversa organizzazione familiare e sociale – la donna è indubbiamente considerata un essere inferiore. Priva di individualità autonoma, irresponsabile, spesso senza anima: ancora in età biblica, essa non è destinataria dei dieci comandamenti, che si rivolgono solo ai maschi e che la considerano una “cosa” in tutto simile all’asino e al bue. Paradossalmente, questa situazione di irresponsabilità le dà anche una grande libertà, di cui i maschi non si curano, come non si cura un adulto dei giochi dei bambini in cortile o sull’aia. A questa libertà dobbiamo – ad esempio – la nascita del teatro comico, che nelle loro feste le vedevano portare in trionfo enormi e sarcastici falli, e intrecciare dialoghi con  gli dèi del vino, dell’amore e della gioia di vivere. Così, mantenendosi nei secoli questa loro libertà irresponsabile, nessuno obbiettò al loro farsi per l’appunto libere professioniste, esercitando un mestiere che aveva un’utile funzione di regolatore psicofisico.           
Naturalmente, molte cose sono cambiate e cambiano sempre; e “il più antico mestiere del mondo” è spesso una piaga sanguinosa e crudele. Ma il teatro – che le ha sempre tenute un po’ fuori, che le ha spese con parsimonia e misura, che le ha protette con premurose mezzane – può almeno vantarsi di essere stato, sotto questo profilo, migliore del mondo in cui si è trovato ad agire.

Luigi Lunari

Nella foto sopra, “Ritratto di cortigiane alla toletta” di Paris Bordon (1500-1571)