Cultura

Carmelo Bene, una riflessione (critica)

di Filippo Bordignon

A 16 anni dalla morte, nel marzo del 2002, la domanda rispetto al reale lascito artistico di Carmelo Bene non sembra trovare una risposta netta.
Poca, pochissima l’attività di diffusione dello sterminato archivio beniano da parte de “L’immemoriale”, fondazione prevista nel proprio testamento dallo stesso attore/drammaturgo e regista otrantino. Tra le cause principali pare ci sia un’intricata ragnatela di dispute familiari, sicché, una volta ancora, il nome di uno dei personaggi più discussi e originali emersi in seno al teatro italiano a partire dai primi Anni ‘60 (comprendendo il burrascoso esordio come attore con un “Caligola” di Camus datato 1959) sembra destinato ad altri fraintendimenti di pubblico o, prospettiva peggiore, ad un assordante oblio della memoria collettiva.
In un Bel Paese dal volto sempre più sciatto, anche quegli slanci di vitalità culturale quale l’uscita in commercio su dvd di un claustrofobico “Don Giovanni” (1970), ad opera dell’ancor coraggiosa Raro Video, rischiano di non guadagnarsi il giusto e anzi doveroso spazio massmediatico, finendo per restare appannaggio di un’elite che, nel 2018 in cui perfino i talent show mostrano un viso stanco e invecchiato, resta intrappolata nella propria echo-chamber di certezze intellettuali. Il fatto è che la lunga e travagliata avventura artistica del nostro (suddivisa disordinatamente tra decostruzioni di Classici e opere originali per il teatro, il cinema e la televisione), avendo sempre preso la distanza dalla mediocrità, ha coniato, teorizzato e rappresentato uno stile incapace di arenarsi nella certezza di un genere; la ritrosia di Bene per la parola dal significato incontrovertibile così come la sua disposizione al gioco linguistico hanno amplificato ed esasperato la percezione di un personaggio imprendibile, forse inarrivabile ma, soprattutto, dopo di lui, irrappresentabile. Bene è una tale mistura di contraddizioni e cultura a tutto tondo (sempre pescata in profondità) da aver creato i presupposti per la propria non riproducibilità.
Senz’aver apparentemente generato eredi, la sua eredità resta nella cospicua testimonianza scritta, audioregistrata e filmata, in quelle opere teatrali composte spesso da atti brevi, scene brevissime e da indicazioni di messa in scena baroccheggianti, talvolta irriverenti se non addirittura criptiche. I più alti concetti da lui espressi così come le sue migliori boutade, però, col trascorre degli anni rischiano di smarrirsi nella speculazione filosofica dei pochi che sono in grado di affrontarla. Il valore ultimo di termini come “macchina attoriale” o “riscrittura di scena”, ad esempio, senza i Jacques Lacan e i Gill Deleuze del nostro tempo (poiché il nostro tempo ha scordato di fornirci le figure di continuazione derivate dai Lacan e dai Deleuze) si fa vago, il ricordo di un ricordo.
La furiosa, ostinata e impossibile volontà di operare al di fuori della Storia, con la sola presenza del Nulla tutto intorno a sé, non poteva che sortire un effetto deterrente sul grande pubblico. Quanto al “piccolo” pubblico, cioè l’intellighenzia delle seconde e terze file, esso non può competere con l’arte dell’intrattenimento, con la capacità di risultare raggiungibili e comprensibili, essoterici (e di qui l’importanza del rito in ambito religioso e della replica di spettacolo in quello teatrale) al posto che esoterici (e dunque condannati in un ambito sotterraneo, in un contesto fruitivo ogni volta irripetibile e consacrato a una lingua per iniziati). Il giovane che oggi incappasse nella “Lectura Dantis” di quello storico 2 agosto 1980, presso la Torre degli Asinelli in Bologna, paragonerà subito il risultato di Bene all’interpretazione di un Benigni, che col suo eloquio concentratissimo e passionale, con la sua missione di rivelare un significato unico e ultimo buono per tutti ha compiuto il miracolo commerciale e avrà certamente avvicinato molti ragazzi alla Divina Commedia dell’Alighieri. Operando un confronto con gli strumenti che ci restano, l’apparizione di Bene, la sua stessa voce, suonano oggi irreali, apparentemente statiche; i più volgari azzarderanno addirittura “incolori”. Hai voglia a spiegare il contrario. Hai voglia a dimostrare che, postulato che “Il talento fa quello che vuole, il genio quello che può” è proprio a partire dai limiti (propri, ma anche dei linguaggi universali impiegati) che l’ardito Carmelo ha compiuto il balzo verso una landa non tracciata nelle mappe geografiche.
E noi, pure affezionati anche alle stravaganze, agli eccessi verbali e alle esplosioni pubbliche di un’ira spesso raggelante che il Bene sovente tributava, siamo rimasti in viaggio sprovvisti di una meta, persi in un deserto che, per parafrasare il Nietzsche semi-folle dei “Ditirambi di Dioniso”, non fa che “crescere e crescere. Ma guai, ad albergare deserti”.

Stampa