Focus
Teatro dialettale,
roba da vecchi?
di Filippo Bordignon
Teatro dialettale: roba da vecchi? Un genere confinato agli amanti del passatismo e di varietà linguistiche che esasperano un localismo ormai fuori contesto storico?
Oppure un tesoro da tramandare con passione al fine di mantener viva la fiamma della nostra storia? Restano indubbie l’attrattiva e la validità culturale e artistica esercitate da alcuni autori del passato (Goldoni su tutti). Ma l’argomento si presta ad un’analisi particolareggiata attraverso l’esperienza di attori e registi contemporanei che operano da anni all’interno di questa scelta netta e oggi tutt’altro che in declino.
“Il pubblico che sceglie questa forma di teatro ama divertirsi, ridere e cerca in sostanza la leggerezza - spiega Alberto Moscatelli, direttore artistico per la trevigiana TeatroRoncade - tali linguaggi offrono una dinamicità, un ritmo e anche una sorta di verità ‘di pancia’ che probabilmente molte compagnie amatoriali non riuscirebbero a rendere con testi in italiano. Nel nostro caso abbiamo sempre inteso spaziare proponendo per la maggior parte lavori in italiano e sperimentando con il grottesco, il brillante, la satira e via dicendo. La diversificazione è la nostra filosofia. Ma anche quando la scelta cade sul dialettale ci sforziamo di offrire qualcosa di innovativo o, per lo meno, non inflazionato. Sovente le scelte di alcune Compagnie sono motivate dalla richiesta del pubblico e di svariati operatori: il dialettale riesce a ‘circuitare’ con maggiore facilità. Il perché è determinato - soprattutto in un pubblico proveniente da paesi relativamente lontani dai grossi centri urbani – anche da uno spiccato senso di vicinanza con la quotidianità delle persone, le quali si sentono giocoforza in comunione coi personaggi sul palco”. Interrogato sulla possibilità di coniare, nel 2018, nuove opere che diverranno i classici del domani Moscatelli si dice possibilista: “Alla base, però, bisogna saper scrivere. I grandi autori della Storia erano tutti grandi attori e registi o comunque, quando mettevano mano alla pena, conoscevano bene le dinamiche di scena e con gli spettatori.”
“Quando allestiamo un lavoro teatrale in dialetto compiamo una precisa scelta culturale che è anche determinata dal mercato - precisa Alberto Bozzo, regista per la vicentina La Trappola - poiché ci fa piacere accontentare molteplici fasce di pubblico. Vi è anche, va detto, una particolare richiesta da parte di una committenza spesso assai ‘venetista’. Il nostro adeguamento a queste circostanze però è fondato sempre sulla massima qualità che riusciamo a offrire, su questo non si discute. Il pubblico, esprimendo la preferenza dialettale, suppongo intenda tornare alle radici del proprio linguaggio. Anche i giovani non disdegnano questa opzione, ma soprattutto sul versante cabarettistico. Esistono ovviamente le eccezioni: ho scoperta recentemente un giovane talentuoso che si è dilettato a tradurre in dialetto il greco antico di Aristofane. E in futuro, chissà, così come esistono attualmente molti buoni drammaturghi che scrivono in italiano probabilmente potremo aspettarci qualche nuovo classico in dialetto. Il problema è che sovente si tende a tradurre in dialetto da altre lingue estere, operazione delicatissima che, nel caso non sia supportata da una profonda conoscenza e preparazione storica, rischia di mettere in scena dei pasticci. Diciamo anche che oggi si sente la mancanza di un Renato Simoni”.
“Approcciandosi a questa forma teatrale le persone rivendicano le proprie origini, la propria storia - evidenzia Bruno Pietro Spolaore, presidente e direttore articolo de Il Portico Teatro Club di Mirano - così come il colore di certe espressioni e dialoghi, che altrimenti potrebbero risultare difficili a un certo tipo di pubblico. Fin dal mio arrivo nell’associazione culturale Il Portico - Teatro Club, era il 1979, tentammo di valorizzare come meglio possibile quei lavori che fanno indubbiamente parte del patrimonio culturale veneto. Per comprendere l’importanza di tale operazione basta pensare alla figura di Ruzante, il più grande autore del Rinascimento italiano, vittima però di un disinteresse durato per anni. Tra le sue opere da noi rappresentate citerei almeno ‘Moscheta’ e ‘Fiorina’. E poi c’è naturalmente Goldoni, del quale abbiamo allestito ben quindici opere scegliendo tra le meno rappresentate: mi riferisco a lavori come ‘Gli amanti timidi’, ‘La donna di maneggio’ o ‘Il contrattempo’ che fu per noi un successo a livello nazionale. Ciò che è importante ricordare è, oltre al valore letterario delle opere qui nominate, l’importanza che esse hanno finito con l’assumere nella nostra tradizione e dunque nella storia del nostro territorio e dei suoi abitanti. Lo studio di questi testi è assai utile per meglio comprendere il presente con tutte le minacce di cui è permeato. In primis quella di una sottile ma evidente omologazione culturale. Siamo testimoni di un periodo storico di grandi rivoluzioni, molte delle quali più che positive e necessarie; ma la smania di un continuo allargamento dei confini comporta anche il rischio della perdita di quella memoria storica sedimentatasi per secoli nelle nostre coscienze. Per un lunghissimo periodo il dialetto era la lingua dell’immediatezza, parlata anche in luoghi importanti, un linguaggio che contribuì non poco a portarci a essere la grande regione che in molti invidiano a livello europeo. Unitamente a ciò, oggi viviamo all’interno di una monarchia culturale a teatro, una monarchia incarnata da alcune potenti associazioni che troppo spesso premiano rassegne di valore monetario più che culturale”.
“Non c’è dubbio che il teatro dialettale sia un modo abbastanza semplice di ricordare situazioni vissute in tempi lontani - sostiene Giorgio Libanore, regista della Compagnia Proposta Teatro Collettivo di Arquà Polesine - un modo che, nei casi più alti, riluce di un carattere universale. Esso è ancor oggi una maniera immediata per comprendere dei personaggi e delle situazioni comunque gratificanti e, in questo, la sua funzione non si discosta molto da quella della Commedia dell’Arte. Naturalmente ci sono, come per ogni tipo di genere teatrale, opere valide e malriuscite, dipende dall’impiego che si fa del linguaggio. Il luogo da cui proveniamo è una sorta di zona grigia poiché il Polesine si trova a confine tra Veneto ed Emilia Romagna. Succede perciò che il linguaggio dialettale sfumi dal veneto all’emiliano, di paese in paese, perfino di casa in casa. Una condizione che, personalmente, ho sempre trovato edificante. Un’esperienza significativa la vivemmo in Sudamerica, dove portammo uno spettacolo in dialetto veneto che poteva essere compreso da buona parte della popolazione. Centinaia di migliaia di ex-migranti capiscono e parlano infatti il Talian, lingua derivata dal nostro dialetto regionale. Ecco, credo che per il futuro la parola chiave sarà ‘contaminazione’. Soprattutto per destare l’interesse dei più giovani, l’opzione dialettale va usata in maniera diversa, comprendendola magari insieme ad altri linguaggi per conferire un senso di contemporaneità alle storie trattate. L’importante è certamente non impiegare nessun linguaggio in modo totalitario”.
“Va innanzitutto fatto un distinguo tra cosa cerca il pubblico e cosa propongono le Compagnie - afferma Donato De Silvestri, autore e attore per la veronese Gli Insoliti Noti, unica realtà di questa breve inchiesta non operativa nel contesto dialettale e che proprio per questo, come esempio, abbiamo voluto ascoltare per ampliare la nostra riflessione -. Le compagnie possono avere due obiettivi: chi propone i classici intende fare cultura mediante la tradizione veneta più eminente. Ma c’è anche un teatro dialettale che richiama a un senso di nostalgia per tempi passati. Bisogna comprendere che i dialetti sono linguaggi sempre meno parlati. Già le generazioni che attualmente hanno quarant’anni comprendono il dialetto veneto, sì, ma non lo sanno parlare correttamente. Sovente io noto la smania di sortire sul pubblico un piacere nostalgico, una specie di ‘ritorno a casa’ che dovrebbe aiutare a recuperare un’identità perduta ma che porge il fianco a una visione distorta del passato. E infatti gli spettatori che frequentano le rassegne dialettali sono quasi prevalentemente anziani. Dobbiamo allora essere onesti e comprendere che un mostro sacro come Goldoni fu squisitamente aderente al suo presente nell’impiego del dialetto; noi invece, portandolo in scena, facciamo un’operazione inversa, poiché oggi parlando in dialetto stiamo in realtà parlando la lingua dei nostri nonni. Se pure io abbia sempre evitato di scrivere in dialetto, credo che se ne possano ancora cavar fuori dei capolavori. A patto che il drammaturgo mantenga la freschezza del linguaggio del suo momento storico. Questo ritengo sia l’unico modo per durare nel tempo”.
Meno ottimista Virgilio Mattiello, attore per la padovana Benvenuto Cellini: “A teatro quelli che scelgono spettacoli in dialetto cercano evasione, non certo impegno. Ovviamente esistono doverose eccezioni, come nel caso di classici quale il Goldoni. Ma, dovendo generalizzare, si tratta spesso di una scelta che aiuta le finanze. È innegabile che oggi sia più facile vendere uno spettacolo in dialetto che non un’opera di Pirandello. Questo è dovuto anche al drastico cambiamento del pubblico, il quale è molto meno esigente di trenta o quarant’anni fa. Non ne conosco le cause, ma è un fatto incontrovertibile. Tuttavia anche la nostra compagnia è ricorsa al dialetto. Ricordo in particolare quando riprendemmo, negli Anni ’60, dopo un periodo di stasi dovuto alla morte di Benvenuto Cellini: per richiamare il pubblico si tornò ad allestire ‘I balconi sul Canalazzo’ da Testoni, in repertorio dal 1946. La situazione attuale è però, a mio avviso, critica: i giovani vengono sempre meno a teatro e, quando lo fanno, si tratta di iniziative volute dalle scuole, non di una loro volontà”. C’è speranza in una nuova leva di drammaturghi dialettali? “Direi di no - replica Mattiello - troppo spesso assisto a spettacoli scadenti, con testi scritti esclusivamente per divertire e dunque ecco il ricorso ai luoghi comuni, all’equivoco della parola e della situazione”.