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Cultura

Samuel Beckett
30 anni dopo

di Filippo Bordignon

Chi ha avuto il piacere di assistere all’interpretazione ad opera di Piera Degli Esposti di “Dondolo”, tra gli ultimi lavori per il teatro di Samuel Beckett, può vantare un’esperienza artistica di primo valore.
Nella manciata di minuti di durata dell’opera scritta nel 1980 sono stipate tutte le ragioni per cui lo scrittore e drammaturgo irlandese va considerato tra i massimi protagonisti del Novecento. Una figura che, nel 2019 ormai alle porte, verrà probabilmente celebrata in ragione del trentennio dalla sua morte (22 dicembre 1989) con dozzine di rappresentazioni dell’arcinoto “Aspettando Godot” e pochi altri titoli della prima produzione. Il fatto è che il “Godot” andrebbe configurato come il primo tentativo d’impiegare quella leva sul mondo sensibile che, a partire dalla rappresentazione al Theatre de Babylone nel gennaio del 1953, riuscì a sollevarci impercettibilmente dalle nostre coscienze, sorpassando le intuizioni della psicanalisi e giungendo nella landa desolata che sarà il nuovo millennio, quel “deserto” abitato da chi ha presenziato inconsapevolmente alla “trasvalutazione dei valori” e vive in una società sprovvista di valori sostitutivi. La critica del tempo si concentrò invece sulla contraddizione dei costumi in relazione alle azioni: personaggi vestiti con abiti logori e bombetta similmente agli eroi del cinema muto di matrice comica (Beckett amava gli sketch di Stanlio e Ollio e di Chaplin nei panni di Charlot) che sproloquiavano senza che si intravvedesse un netto filo conduttore. E poi quei silenzi. L’intellettualizzazione dell’attesa a teatro risultò snervante, svelò una voluta incompiutezza che suonava beffarda, una sfida al pensiero logico e alle regole narrative in toto. Fu l’inizio di un’escalation giocata sulla sottrazione del servibile e sulla valorizzazione dell’inservibile. Dai cinque personaggi del “Godot” si passò presto ai quattro di “Finale di partita” e di lì a quel “L’ultimo nastro di Krapp” in cui il protagonista azzarda un’interazione con un nastro registrato; qui le due voci incarnano in realtà un’unica voce (l’Io), disinteressata al ricordo. Quando il passato viene evocato lo si fa per cenni, con il tono svagato di chi rilegga una logora lista della spesa ritrovata nella tasca di un vecchio paio di pantaloni.
Si arriva così alla solitudine totale, una condizione che però ha il tono del monologo brillante in “Giorni felici” (di cui va ricordata la straordinaria interpretazione dell’attrice inglese Billie Whitelaw): qui un’ironia noir si mostra in tutta la spietatezza immaginabile. Per renderla evidente allo spettatore senza farlo retrocedere di un passo, Beckett cala il personaggio in un ambito assurdo: la donna è seppellita fino al busto sottoterra, una condizione che non la tocca minimamente, preferendo badare a tener alto il proprio morale (“ sono sempre dei giorni felici quando si sentono dei suoni”) piuttosto che prendere coscienza della propria prigionia. Citando lo stesso Beckett, in “Giorni felici” sono evocati con magistrale lucidità “momenti in cui la noia di vivere è rimpiazzata dalla sofferenza di esistere”. Uno dei paradossi più evidenti sta nel fatto che, più l’autore perfeziona uno stile purissimo e privo di compromessi, più se ne palesa la natura irrappresentabile. L’antinaturalismo è compiuto definitivamente in “Non io” dove la proiezione di una grande bocca recita alla svelta un monologo ben presente alla totale assenza di un senso logico, un lavoro mai casuale eppure edificato su frasi apparentemente casuali.
Torniamo così a “Dondolo”. Come su “Non io” la durata è insufficiente per giustificare una visita a teatro, intorno ai 15-20 minuti. La sua brevità suggerirebbe un miglior posizionamento attraverso il medium televisivo (per il quale negli Anni ’80 Beckett lavorò producendo filmati prossimi alla video arte). Il suo impiego di pattern tematici (vicini ai pattern usati in musica dal compositore Morton Feldman col quale fu imbastita nel ‘77 l’ossessiva opera lirica “Neither”) lo avvicina invece alla performance art contemporanea. E qui sta la magistrale comprensione interpretativa della Degli Esposti: ella sfrutta il movimento di avanti-indietro dell’oggetto protagonista enfatizzando l’effetto ipnotico delle parole. Al pubblico non resta che abbandonarsi al potere della voce, lasciando emergere le poche frasi-chiave che fissano nel pensiero il ritratto di un’ossessa prossima alla morte. Scarnificando pezzo per pezzo il dramma della conversazione Beckett ha finito così per ricavare una drammaturgia di silenzi e azioni prive di un fine ultimo. Il cosiddetto “flusso di coscienza” si perde nel vuoto guardando in faccia una mancanza di scopo destinata comunque a generare una qualche trascurabile azione. Vertici riproducibili a teatro forse solo utopicamente ma, nonostante ciò, scritti nero su bianco e certificati da un Premio Nobel per la letteratura nel 1969.