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Cultura

Un ricordo
di Neil Simon

La morte di Neil Simon, lo scorso 26 agosto, ha privato il mondo della commedia teatrale di uno dei suoi più celebri e celebrati protagonisti. Tra gli autori più rappresentati e noti della contemporaneità, lo scrittore newyorkese è responsabile di una carriera prolifica e ricca di successi memorabili, spesso trasposti con pari o addirittura maggior riscontro di pubblico in arcinoti film per il cinema.

Interno03Bastino titoli intramontabili quali “A piedi nudi nel parco” (1963) o “La strana coppia” (1965), citandone un paio, per evocare un microcosmo intessuto di risate grasse e sottili, di deliziosi equivoci o considerazioni dolci-amare sulle questioni della quotidianità. Come per la dipartita di ogni artista “maiuscolo” è tempo per la critica specializzata di bilanci e, per i più arditi, d’azzardare un discorso quanto più definitivo possibile sul lascito reale del drammaturgo nato, vissuto e morto nell’amata Grande Mela. Tali considerazioni dovranno soppesare la caratura di un talento che ebbe il merito aggiuntivo di contribuire a lanciare definitivamente, negli Anni ’60, i palcoscenici di Broadway come fenomeno culturale planetario.
Le pièce simoniane sono fondate nella quasi totalità dei casi su dialoghi brillanti tenuti insieme da un intreccio narrativo delle vicende complesso ma non complicato. Pur non lesinando battute d’effetto attraverso la bocca dei suoi protagonisti, Simon non indugiò mai su sofisticatezze eccessive, distinguendosi, a esempio, dallo humour di un altro newyorkese doc come Woody Allen per lo stile asciutto ma sempre incisivo. Se l’Allen teatrale, meno conosciuto in Italia rispetto alla sua carriera cinematografica, nelle opere dei tardi Anni ’60 “Don’t drink the water” e “Play it again Sam” gioca funambolico ma profondissimo elargendo boutade a piene mani, il Simon dei lavori più rappresentativi ottiene molto con poco, evitando di soffocare gli interpreti con il peso di fraseggi troppo caratterizzanti. Ed è proprio in virtù di un tale meccanismo perfetto che emerge squisita la competenza dei tanti attori arcinoti che hanno contribuito al successo del drammaturgo. Attori teatrali che spesso erano i medesimi ad interpretare le trasposizioni per il grande schermo (quasi sempre curate dallo stesso Simon), giovandosi di rimbalzo dell’esposizione massmediatica concessa dal cinema e divenendo volti acclamati dal pubblico internazionale. Tra i nomi imprescindibili, Robert Redford, Jack Lemmon e Walter Matthau.
Letta nella sua interezza, l’opera di Simon trova nel pittore britannico David Hockney la traduzione figurativa per eccellenza. Molte tele di Hockney raffigurano esterni di residence, motel, alberghetti fissati nella memoria con colori pop, tonalità quasi fluorescenti che danno vita a un’estetica chic ma del quotidiano, condotta con linee minimali senza troppa attenzione per derive intellettualistiche. Ed è proprio attraverso l’esposizione di quegli spazi in cui l’uomo compare come una figura desolata che emerge prepotente un umanesimo profondo e commovente. Un umanesimo misericordioso con l’uomo “della strada” che viene raccontato senza artifizi, ma usando un registro meno pungente di quello appartenente alla borghesia bene, il quale ha la colpa aggiuntiva di aver determinato la propria condanna ottenendo un riscatto sociale attraverso la cultura.
Al massimo delle propria fulgidità, il teatro simoniano è ambientato in salotti, hall o stanze d’albergo dove da situazioni apparentemente semplici si cavano fuori conflittualità che il drammaturgo sviluppa in un implacabile crescendo rossiniano. Sovente l’ostinato aprire e chiudere delle porte di tali stanze è concepito per accrescere il ritmo dei dialoghi, non consentendo perciò allo spettatore la possibilità di provare la benché minima stanchezza verso le vicende trattate (vedi “Rumors” del 1988). Se trattata con le capacità “orchestrali” di un regista compiuto, la commedia simoniana avvince lo spettatore nella misura di pochi minuti. C’è spazio per il divertimento e per il dramma in un mix che rappresenta la frammentarietà delle nostre esistenze. È il caso di “California Suite” (1976), opera in quattro atti ambientati nel medesimo hotel di Beverly Hills: risate a crepapelle per “Visitors from Chicago”, in cui due coppie amiche trovano proprio in una vacanza collettiva l’occasione per i peggiori litigi; atmosfera introspettiva e amara in “Visitors from London”, dove un’attrice alcolizzata traccia un impietoso bilancio del proprio matrimonio di convenienza e di una carriera mai veramente esplosa.
Complesso e affascinante è inoltre il rapporto con il genere musical, vera e propria risposta statunitense all’opera europea patinata di glamour, numeri acrobatici e uno stile vocale spogliato di ogni enfasi ma ben calato nel pathos della canzonetta popolare. Lavori come “Little Me” del 1963 (e in particolare la canzone “I've got your number”) o “They're playing our song” (1978) sono classici ancor oggi rappresentati con successo, carichi di atmosfere melodrammatiche e melodie accattivanti.
Difficile sintetizzare la ricetta alla base dell’estetica simoniana. Come sempre un breve sguardo agli anni formativi può dire qualcosa di significativo. Classe 1927, cresciuto nel Bronx in una famiglia ebraica, l’infanzia del piccolo Neil è segnata dalla Grande Depressione. Unico rifugio dai problemi della quotidianità è un teatro dove sono proiettati film muti di Charlie Chaplin e Buster Keaton. È lì che il bambino sperimenta il potere salvifico della comicità, ripromettendosi di scrivere qualcosa, un giorno, che farà ridere a crepapelle il prossimo. Compiuti gli studi universitari e metabolizzate le letture formative di Mark Twain, gli inizi professionali sono con la scrittura di testi per la radio e la televisione. Dunque un promettente esordio a teatro con “Come blow your horn” (1961), adattato per il Grande Schermo due anni più tardi con Frank Sinatra protagonista. Sarà l’inizio di un’avventura artistica ricca di riconoscimenti, successo e prove discontinue, con pietre miliari del genere, operazioni poco note (la co-sceneggiatura del soggetto “Caccia alla volpe” per un film minore diretto da Vittorio De Sica) e chicche per i completisti (la rilettura in forma di musical del felliniano “Le notti di Cabiria” a titolo “Sweet Charity” nel 1966).
Il lascito di Simon divide ancor oggi la critica specializzata: chi ne incensa lo humour e la levigatezza della struttura narrativa, chi evidenzia la vena marcatamente commerciale delle sue opere più note. C’è però un testo sul quale tutti convergono favorevolmente: “Lost in Yonkers”, che nel 1991 gli valse il Premio Pulizer per la drammaturgia. Insomma, come previsto, la speculazione ha già avuto inizio. F.B.