Fita Logo trasp  fita logo 70
regione veneto  facebook googleplus instagram youtube

Cultura

Tra Lonfi e Ciciarampa

di Alessandra Agosti

Si dice spesso che un attore, se bravo, potrebbe recitare anche l'elenco del telefono, riuscendo a dare senso ed emozione perfino a quello. Qualcosa di simile si potrebbe dire anche per la "poesia metasemantica".

Il termine fu coniato dall'antropologo e orientalista Fosco Maraini (nella foto), padre della celebre scrittrice e drammaturga Dacia. Tra i suoi componimenti più celebri in materia va certamente ricordato "Il Lonfo", poesiola dedicata ad un animale del tutto inventato – un po' come il mitico Sarchiapone della gag con Walter Chiari e Carlo Campanini del 1958 – descritto con l'impiego di parole altrettanto di fantasia, neologismi giocati sulla metrica e l'onomatopea, ma capaci di creare affreschi di immagini e sensazioni.

interno01 FoscoMaraini

 

Eccone il testo:

Il Lonfo non vaterca né gluisce
e molto raramente barigatta,
ma quando soffia il bego a bisce bisce,
sdilenca un poco e gnagio s'archipatta.
È frusco il Lonfo! È pieno di lupigna
arrafferia malversa e sofolenta!
Se cionfi ti sbiduglia e ti arrupigna
se lugri ti botalla e ti criventa.
Eppure il vecchio Lonfo ammargelluto
che bete e zugghia e fonca nei trombazzi
fa legica busia, fa gisbuto;
e quasi quasi in segno di sberdazzi
gli affarferesti un gniffo. Ma lui, zuto
t' alloppa, ti sbernecchia; e tu l'accazzi.

 

Per comprendere come un brano del genere si possa tradurre in una performance esilarante, fate un giretto in internet, a caccia dell'irresistibile interpretazione che ne fece Gigi Proietti. E se dovesse venirvi voglia di cimentarvi in prove analoghe, ricordate che "Il Lonfo" è in buona compagnia nella raccolta di Maraini "Gnosi delle Fànfole", del 1978: da non perdere, al riguardo, pure la versione in musica, firmata da Stefano Bollani e Massimo Altomare nel 2007.

Intanto, qualche altra pagina tratta dal volume di Maraini. Ecco la natura farsi viva e vibrante ne "Il giorno ad urlapicchio":

Ci son dei giorni smègi e lombidiosi
col cielo dago e un fònzero gongruto
ci son meriggi gnàlidi e budriosi
che plògidan sul mondo infragelluto,
ma oggi è un giorno a zìmpagi e zirlecchi
un giorno tutto gnacchi e timparlini,
le nuvole buzzillano, i bernecchi
ludèrchiano coi fèrnagi tra i pini;
è un giorno per le vànvere, un festicchio
un giorno carmidioso e prodigiero,
è il giorno a cantilegi, ad urlapicchio
in cui m’hai detto “t’amo per davvero”.

"Via Veneto" trasporta invece il lettore/spettatore fra i "plòcrati" e le "guince" della dolce vita capitolina:

Il Trònfero s’ammalvola in verbizie
incanticando sbèrboli giocaci,
sbramìna con solènnidi e vulpizie
tra i tavoli e gli ortèdoni fugaci.
Più raro più sinferbo più merconio
il Plòcrate dagli occhi a dragonetti
scocolla barcoluto e invereconio
all’ora dei morfegi e dei gorbetti.
Intorno convoltigiano le Sguince
allìcchere di giorcadi pornali
nel sole si smarmellano budrince
al neon s’affastigiano vetrali.
 
Ricorda poi certe pagine magiche di Giuliano Scabia quest'altro brano, "Dialogo celeste":
– E tu quando vivesti? – Io vissi all’era
degli Andali ludiati e perfidiosi:
gli artèdoni liriavano in finiera
metàrcopi e sindrèfani rodiosi…
– Io invece vissi ai tempi laccheroni
degli ùzzeri bagiosi e guazzacagni;
s’andava lornogorno a brencoloni
tra làlleri, gaglioppe e trucidagni;
d’inverno si zurcavano le precchie
cazzando lorigucci e naderlini,
a maggio si correvan le frullecchie
sfoncando con urlacci i mogherini.

E per concludere in allegria, niente di meglio di "E gnacche alla formica":

Io t’amo o pia cicala e un trillargento
ci spàffera nel cuor la tua canzona.
Canta cicala frìnfera nel vento:
E gnacche alla formica ammucchiarona!
Che vuole la formica con quell’umbe
da mòghera burbiosa? È vero, arzìa
per tutto il giorno, e tràmiga e cucumbe
col capo chino in mogna micrargìa.
Verrà l’inverno, sì, verrà il mordese
verranno tante gosce aggramerine,
ma intanto il sole schicchera giglese
e sgnèllida tra cròndale velvine.
Canta cicala, càntera in manfrore,
il mezzogiorno zàmpiga e leona.
Canta cicala in zìlleri d’amore:
E gnacche alla formica ammucchiarona.

Se Maraini vi ha stuzzicato la fantasia, continuiamo la nostra passeggiata nel paese delle meraviglie della "metasemantica". E il riferimento a Lewis Carroll non è casuale, visto che anche lo scrittore inglese fu un maestro del genere e, in senso lato, del nonsense. Molto, in questo ambito, si può trovare naturalmente già in "Alice nel paese delle meraviglie" del 1865, ma anche nel successivo "Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò", pubblicato nel 1871: fu qui, infatti, che Carroll inserì il celebre personaggio di Humpty Dumpty – vero e proprio guru della metasemantica - e la poesia "Jabberwocky".

'Twas brillig, and the slithy toves
Did gyre and gimble in the wabe;
All mimsy were the borogoves,
And the mome raths outgrabe.
Beware the Jabberwock, my son!
The jaws that bite, the claws that catch!
Beware the Jubjub bird, and shun
The frumious Bandersnatch!
He took his vorpal sword in hand:
Long time the manxome foe he sought
So rested he by the Tumtum tree,
And stood awhile in thought.
And as in uffish thought he stood,
The Jabberwock, with eyes of flame,
Came whiffling through the tulgey wood,
And burbled as it came!
One, two! One, two! And through and through
The vorpal blade went snicker-snack!
He left it dead, and with its head
He went galumphing back.
And hast thou slain the Jabberwock?
Come to my arms, my beamish boy!
O frabjous day! Callooh! Callay!
He chortled in his joy.
'Twas brillig, and the slithy toves
Did gyre and gimble in the wabe;
All mimsy were the borogoves,
And the mome raths outgrabe.

Di questo componimento sono disponibili diverse traduzioni italiane, che ne sottolineano la musicalità e l'originalità dei neologismi, tra i quali molte cosiddette "parole macedonia" (termine ideato dal linguista Bruno Migliorini), perché formate dalla fusione tra due o più termini.  Nel 1967, tanto per fare qualche esempio, Tomaso Kemeny così traduceva la prima strofa: "Era rombo e i fangagili chiotti / Girellavano e succhierellavano i pratiali; / Tutti erano infoli e cenciopi, / E lo spirdito primaticcio murpissi".
"Jabberwock" diviene invece "Il Ciciarampa" (e quanti hanno visto il film di Tim Burton a questo punto avranno già inarcato le sopracciglia) nella traduzione di Milli Graffi di metà Anni Settanta: "Era cerfuoso e i viviscidi tuoppi / ghiarivan foracchiando nel pedano: / stavan tutti mifri i vilosnuoppi / mentre squoltian i momi radi invano".
Anche Masolino D'Amico, in quello stesso periodo si cimetà nella traduzione della poesia, che egli titolò "Ciarlestroniana": "Era brillosto, e i tospi agìluti / Facean girelli nella civa;  / tutti i paprussi erano mélacri / ed il trùgon striniva".
Insomma, che lo si sia definito "Tartaglione" o "Mascellodonte", "Brillalovo" o "Ciarlestrone", "Lanciavicchio" o "Giabervocco",  il fantastico personaggio immaginato da Caroll ha scatenato la fantasia di più di un esperto linguista.   
Dal grammelot a Lewis Carrol, da Fosco Maraini a Dario Fo a Giuliano Scabia, fino al "Prisencolinensinainciusol" di Celentano o alla "Supercazzola prematurata" di "Amici miei", giocare con le parole, il loro suono e il loro significato si conferma un'avventura intellettuale ed emotiva di straordinaria forza. Un gioco divertente e libero, perché – per dirla con l'ineffabile Humpty Dumpty – basta rispettare un'unica regola: "Quando dico una parola, questa significa solo ciò che io voglio che significhi".