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Cultura

Il '700 di Luisa Bergalli

Non fu una vita facile, quella di Luisa Bergalli. La sua cultura, lo spirito acuto e il talento artistico non le garantirono una vita agiata, né potè farlo il suo nato, attivo ma piuttosto assente marito, Gasparo Gozzi (1713-1786, fratello del più celebre Carlo), che con lei visse, tra luci e ombre, gli stimoli e l'effervescenza del Settecento veneziano.
Famiglia, amici, maestri
Aloisa Pisana Bergalli (ma nota come Luisa Bergalli o talvolta Bergali) nacque il 15 aprile 1703 a Venezia, dove morì nel 1779. Figlia di Giovan Giacomo, modesto commerciante di origini piemontesi, e di Diana Ingali, fu tenuta a battesimo da Luigi Mocenigo e Pisana Comaro, due nobili che peraltro non le diedero mai alcun genere di aiuto nei momenti di difficoltà, purtroppo frequenti.
Nonostante le angustie economiche, però, Luisa si dedicò a lungo all'arte e partecipò attivamente alla vita culturale del suo tempo, sia pure con alterne fortune e con passione altalenante. Fin da giovane coltivò amicizie profonde con personaggi di notevole caratura, come i letterati e poeti Apostolo Zeno (1668-1750), che la consigliò e la spronò considerandola una propria protetta, Antonio Sforza (1700-1735) e Antonfederigo Seghezzi (1706-1743), amici anche del marito Gasparo. Sul fronte della formazione, frequentò per un breve apprendistato la bottega della pittrice Rosalba Carriera (1675-1757), mentre il suo precettore per le materie umanistiche fu il padre somasco Antonio Alberghetti. A padre Giacomo, invece, dovette la conoscenza del francese.
Un ruolo importante nella carriera di Luisa Bergalli ebbe, come accennato, Apostolo Zeno, all'epoca poeta di corte a Vienna. Convinto delle doti poetiche della giovane, la spinse a comporre, dichiarando anche di aver più volte presentato a Carlo VI d'Asburgo rime della sua pupilla, ricevendone riscontri molto positivi ("le considera come cosa rara e pregevole").

Prima donna autrice di un melodramma
Fu sempre Zeno a convincere la ventiduenne Luisa a pubblicare, prima donna a farlo di cui si abbia notizia, un melodramma, l'"Agide re di Sparta", su musica di Giovanni Porta, il cui debutto avvenne a Venezia nel 1725, al Teatro di S. Moisè. In realtà, il Teatro aveva chiesto un'opera a Zeno: quest'ultimo, però, tenne in sospeso l'incarico fino all'ultimo, defilandosi al momento giusto affinché il S. Moisè non avesse praticamente altra scelta che accettare la composizione della Bergalli; a tutto questo aggiunse anche una critica positiva, non firmata, sul Giornale dei letterati d'Italia: Luisa era indicata come "una giovane di non molti anni e di non molto studio (...) che scrive con facilità, con chiarezza e dolcezza di verso e con elevatezza e verità di sentimenti e pensieri". Qualitativamente, l'opera non era, a dire il vero, un gran capolavoro, ma Zeno non poteva che esserne entusiasta, visto che in essa l'allieva rispettava per filo e per segno il dettato stilistico del maestro, dalla spinta alla verosimiglianza (quella che Carlo Goldoni avrebbe sostenuto a teatro) all'austerità del testo senza distrazioni comiche.

La passione per il teatro
Ma sarà il teatro e non il melodramma il vero amore di Luisa, pur conscia del debito di riconoscenza nei confronti di Zeno, sul cui esempio proporrà ancora il melodramma "Elenia", del 1730, musicato da Tomaso Albinoni, e l'oratorio "Eleazaro", del 1739, su musiche di Giuseppe Giovanni Bonno.
Nel 1728 Luisa pubblicò la sua prima tragedia, "Teba". Dopo aver rispettato i canoni stilistici di Zeno nella composizione del melodramma, in questo lavoro per il teatro l'autrice mostrò una ben precisa volontà di affrancarsi da schemi e regole imposte, come evidenziato nella lettera con la quale dedicò l'opera al gentiluomo veneziano Marco Miani, che l'aveva incoraggiata a perseguire questa libertà espressiva, andando pur contro "le leggi delle greche tragedie, alla cui secchezza ed orribilità mal si accomodano i geni nostri, e senza incorrere in certe improprietà che purtroppo sugli italiani teatri si soffrono".
L'ispirazione per "Teba" era venuta alla Bergalli, per sua stessa dichiarazione, dalla lettura di Plutarco: "Nella vita di Pelopida, riferita da Plutarco, leggesi tanto di Alessandro, tiranno di Fere, quanto bastò a trar l'argomento di questa tragedia. Degli episodi aggiunti, di qualche carattere, o storico accidente nobilitato, non do ragione altrui, come di cose già mille volte conosciute e dichiarate per necessarie". Di per sé la tragedia non è poi così rivoluzionaria come le premesse dell'autrice avrebbero fatto attendere; ma ciò non toglie nulla al significato che questa presa di posizione ha in considerazione dell'epoca e – se vogliamo – del fatto che a farsene portatrice sia stata una donna.

“Avventure del poeta”, l’opera migliore
Due anni più tardi toccò invece alla commedia "Avventure del poeta", testo considerato il capolavoro della veneziana. Dall'ispirazione letteraria e intellettuale che aveva portato alla scrittura di "Teba" si passa in questo lavoro ad un'ispirazione personale e diretta, decisamente autobiografica. Tracce della precarietà economica con la quale Luisa era abituata a convivere si ritrovano infatti nella figura di Orazio, poeta assai male in arnese, avvezzo a "ber sempre al fonte d'Elicona e a non mangiar mai"; lo stesso dicasi per Camilla, sorella di Orazio, fanciulla gentile e assennata più di quanto non lo sia suo padre, che sostiene le illusioni del figlio. Interessanti e di piuttosto evidente richiamo autobiografico anche le figure del conte Valerio e della contessa Bianca, bersagli di una satira pungente che si prolunga per tutta la commedia, che ha il proprio tratto migliore nella definizione psicologica dei personaggi, mentre non mostra particolare slancio sotto il profilo dell’azione.

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Donna e letterata nel Settecento veneziano
Quanto al ruolo della Bergalli nell’emancipazione femminile dell’epoca, esso fu indubbiamente significativo, vista la stima di cui la letterata godette anche per la sua preparazione culturale, nel complesso buona, sorretta dall’occhio attento di Zeno. Non molto precise, in realtà, furono le raccolte poetiche da lei curate, come sottolineato dallo stesso Zeno, che più di qualche volta la invitò ad usare maggiore attenzione e ad agire senza eccessiva fretta.
Nel 1738 sposò Gasparo Gozzi, di dieci anni più giovane di lei. Ebbero cinque figli, ma il matrimonio non fu felice, tra difficoltà economiche (soprattutto dopo il fallimento come impresari del Teatro Sant’Angelo nel 1748), scarso successo artistico e frequenti tradimenti. In quel periodo, la penna di Luisa si fece sempre più assente, debole e distratta, sul fronte della composizione autonoma così come nelle traduzioni e nei lavori per il teatro, fino al 1756, quando cessò la collaborazione con Gasparo.
Eppure la Bergalli, accolta in Arcadia con il nome di Irminda Partenide, scrisse moltissimo, nei più diversi generi e per le più diverse occasioni e soprattutto a partire dal 1760, ma con risultati decisamente modesti e via via sempre meno aperti a possibili innovazioni stilistiche.
Una curiosità. Alla Bergalli dedicaò un romanzo nel 1932, lo scrittore e critico letterario Alfredo Panzini (1863-1939): si intitola “La sventurata Irminda”, proprio in omaggio al suo nome in Arcadia.