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Cultura

Giuseppe Bertolucci
talento da riscoprire

Nella sovrabbondanza di protagonisti emersi dagli Anni ’70 del secolo scorso la figura del parmigiano Giuseppe Bertolucci (1947-2012) resta ancor oggi ingiustamente nell’ombra per molteplici ragioni.

di Filippo Bordignon

Nonostante l’irriverenza e l’originalità delle sue esperienze cinematografiche, televisive e teatrali Bertolucci parrebbe, a un’analisi disattenta, posto un gradino addietro tra le figure ingombranti del padre Attilio, poeta di caratura nazionale, e del fratello maggiore Bernardo, tra i fari di riferimento del cinema internazionale fino all’ultima delle sue pellicole.
Timido, riservato, votato per natura alla poetica delle parole e a una grottesca estetica delle immagini, Giuseppe ha contribuito allo sviluppo di un linguaggio alternativo che ancor oggi profuma di underground senza apparire forzatamente formalista. Coautore della sceneggiatura di capolavori quali “Novecento” (diretto da Bernardo nel ‘76), l’esilarante “Non ci resta che piangere” della coppia Troisi-Benigni (‘84) e il successo di botteghino “Il piccolo diavolo” (‘88) egli ha dato prova di una capacità narrativa stravagante eppure sorretta da un umanismo spesso commovente; l’esistenza umana in Bertolucci è un crogiuolo di contraddizioni immerse in silenzi eloquenti o, di per contro, annegate in fiumi di parole spesso deformate da impeti dialettali che le rendono irriconoscibili. Amando la vita nella sua imprevedibilità, nega ai suoi racconti la chiusa di un finale deciso, preferendo un’atmosfera sospesa al di là del giudizio netto e perciò perfetta per la speculazione intellettuale.
Egli inizia a filmare cortometraggi nei primi Anni ’70, analizzando con sguardo acuto le ragioni del fare cinema (“Abcinema”) per passare presto a esperimenti di indagine sociale che si attireranno il malcontento della destra e della sinistra politiche all’unisono, dipingendo attraverso il durissimo documentario “Panni sporchi” (‘80) il ritratto di un’Italia degli “ultimi”; l’opera è girata dall’alba a quella del giorno successivo nella stazione dei treni di Milano e ha per protagonisti veri barboni, prostitute e tossicodipendenti che spiegano la loro idea di temi come il sesso, la religione e la famiglia. Tra i tanti titoli di spiccato valore artistico vanno menzionati almeno “Oggetti smarriti” (’80, con una toccante Mariangela Melato in coppia con il tedesco Bruno Ganz), “Segreti segreti” (’84, una spiazzante Lina Sastri per una storia di terrorismo rosso) e “Amori in corso” (’89, in cui dirige due attrici pressoché esordienti, tali Francesca Prandi e Stella Vordemann, ottenendone una recitazione potente e viscerale).
Ma il titolo più conosciuto resta certamente il lungometraggio d’esordio del 1977, quel “Berlinguer ti voglio bene” costruito attorno alla fisicità di un giovane Roberto Benigni. Il lavoro, acerbo e illuminante in parti uguali, è l’adattamento di un monologo teatrale scritto qualche anno prima dallo stesso regista per l’attore aretino, “Cioni Mario di Gaspare fu Giulia”. Il “Cioni”, prima al Teatro Alberico di Roma e successivamente nel resto d’Italia, ottenne un insperato successo, lanciando la carriera di Benigni che, da allora in avanti, non avrebbe subito alcuna fase d’arresto. Il disarticolato racconto della propria giornata tipo da parte di un sottoproletario della sinistra più radicale era il trampolino di lancio per le velleità improvvisative di Benigni il quale, tra il turpiloquio e il non-sense, confezionò un meccanismo teatrale dal ritmo forsennato di cui restano alcune registrazioni audio ascoltabili su youtube e ancor oggi disturbanti. La scrittura teatrale di Bertolucci, al pari del suo cinema, si rivela strumento affilato che non fa prigionieri, un’arma di ardua catalogazione incapace di invecchiare come pure di divenire oggetto di mode.
Gli seguì nell’83 un altro gioiello monologico, “Raccionpeccui”, studiato per la straordinaria bravura di Marina Confalone. L’attrice napoletana, che esordì giovanissima con la compagnia di Eduardo De Filippo, calzò i panni di una donna affetta da disturbi mentali che, in un intercalare di tic e digressioni in dialetti pseudo-esistenti, racconta la propria travagliata storia sentimentale dall’orfanotrofio alla prigione. Fortunatamente esiste un mediometraggio del 2005 che ripropone la somma interpretazione della Confalone, contenuto nel cofanetto di tre dvd + libro dedicato a Bertolucci “Il cinema probabilmente”.
Pur nella sporadicità delle sue rappresentazioni, il teatro del regista di Parma si conferma, a un’analisi complessiva, corpus “intellettuale” nell’accezione più nobile del termine. Il coraggio della sua scrittura è verificabile ne “Il pratone del Casilino” adattamento del ‘94 di un capitolo da “Petrolio”, romanzo incompiuto di Pasolini nel quale si narra di Carlo, borghese di Torino alle prese con una personalità sdoppiata in un versante angelico e in uno demoniaco. Bertolucci va a pescare dall’appunto 55, in cui il protagonista pratica un rapporto orale a venti uomini, costruendo per l’attore Antonio Piovanelli un flusso di coscienza che, incomprensibilmente, pur partendo dalla lunga e dettagliata descrizione della pratica sessuale in tutta la ripetitività dei vari rapporti, perviene a un misticismo in cui le parole si spogliano di ogni significato avvicinandosi all’abbandono che è prossimo alla morte.
Dovranno passare altri dieci anni per rintracciare un altro lavoro di simile spessore e intensità (nel frattempo il nostro cura nel 2001 la regia per “La traviata” di Verdi al  Regio di Parma): “Na specie de cadavere lunghissimo” è un ulteriore monologo, affidato all’ottima presenza scenica di Fabrizio Gifuni, che mischia alcuni scritti di Pasolini al poemetto “Il pecora” del milanese Giorgio Somalvico. Il risultato è un affresco impietoso dell’Italia moderna, imbruttita da una violenza strisciatale nell’anima chissà da dove e chissà da quando. Adottando un registro decisamente più pacato si giunge nel 2011 a “Casa d’altri”, trasposizione del racconto di Silvio d’Arzo in cui torna in scena un intenso Antonio Piovanelli che qui calza i panni di un prete di paese; ciò che colpisce è l’allestimento ai limite della sottrazione. La vicenda viene raccontata al pubblico dal parroco seduto al tavolo di un’osteria deserta. Per proseguire nella narrazione della propria crisi di coscienza l’uomo si accompagna a una bottiglia di vino, sciogliendosi man man che l’ubriacatura sale chiedendo di pagar dazio. Ne consegue una recitazione progressivamente più morbida e confidenziale, una storia che tratteggia perfettamente la vita negli Appennini al termine del secondo conflitto mondiale.
Forte di una sensibilità interessata a sperimentare situazioni e soluzioni inusitate, a teatro come al cinema, Giuseppe Bertolucci ha cavalcato in solitaria per oltre quattro decenni professando la fede in un’arte slegata da partiti o bandiere sociali. Agli amanti dell’essai si è rivolto con un linguaggio diretto e mai oscuro, seguendo l’estatico esempio del padre poeta. La generosità della sua persona e la purezza di uno stile in continuo divenire non potevano raccogliere consensi unanimi, vista anche la discontinuità di una produzione spesso azzoppata dalla difficoltà di reperire fondi economici per allestimenti e opere cinematografiche.