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Interviste

Pino Costalunga - foto di Roberto Rizzotto

Pino Costalunga:
chiacchierando di teatro

di Filippo Bordignon

Parlare di Pino Costalunga significa immergersi nell’avventura professionale di un attore e regista eclettico e appassionato, un uomo costantemente affamato di esperienza e conoscenza.
Vicentino, classe 1956, ha lavorato con un numero impressionante di compagnie italiane ed estere venendo diretto da registi quali, per citarne quattro, Georg Bintrup, Christopher Chaplin, Gianfranco De Bosio e Bert Rolfart.
È da due anni direttore artistico di Fondazione Teatro Aida di Verona, con la quale ha co-prodotto - dirigendo con Marinella Rolfart - una traduzione\riduzione teatrale di “Pippi Calzelunghe” per ragazzi, vincitrice nel 2008 del premio del Ministero per la Cultura come spettacolo ragazzi più visto in Italia. Come lettore per adulti e soprattutto per ragazzi ha presenziato a moltissime performance letterarie, fra le quali nomineremo almeno "Poetry Festival" a Conegliano con il cantante rock Lou Reed e la scrittrice Fernanda Pivano. Nel 2016 viene tratto un film per la regia di Luca Immesi e Giulia Brazzale dal suo testo teatrale “Le Guerre Orrende”, pellicola che ha ottenuto un buon successo sia di critica che di pubblico in Italia e all’estero, (presentato alla Mostra del Cinema di Venezia e a quella di Shangai). Dal 2017 presta la propria esperienza della letteratura per l’infanzia in lingua svedese alla casa editrice Iperborea in occasione dell’apertura di una sua collana per l’Infanzia dal nome “I Boreali”.

Quali sono gli ingredienti imprescindibili a teatro per mantenere desta l’attenzione dei bambini?
Gli ingredienti principali sono la storia e il modo in cui la si racconta. Esattamente come gli adulti e forse ancor più di loro, i bambini hanno bisogno di una storia bella e interessante, che abbia contenuti e soprattutto che desti interesse. Inoltre è importante che la storia venga raccontata bene, affinché i bambini ne vengano coinvolti. Basta questo. Attenzione però, perché a volte, soprattutto nel teatro destinato ai bambini e ragazzi, la parola “coinvolgere” viene confusa con “interagire” e sempre più spesso si tende a far “interagire” i ragazzi del pubblico con l’attore in scena.

Questo rappresenta un problema?
Va spesso bene e quasi sempre funziona ma attenzione, perché il teatro non è “un gioco elettronico” né un tablet, mezzi con i quali i ragazzi interagiscono davvero ogni giorno. Perché deve farlo anche il teatro? Anzi lo spettacolo dal vivo può essere per il bambino proprio quell’occasione in cui impara a capire che ci sono pure momenti dedicati all’ascolto. Il teatro, e lo spettacolo dal vivo in generale, per il bambino può diventare pure educazione all’ascolto, una delle poche occasioni in cui lo “spettatore inesperto e giovane” - assieme al racconto di storie, cioè alla narrazione - può partecipare con i suoi sentimenti: emozionarsi, avere paura, divertirsi, sentire la poesia delle cose… ecco se il teatro è poesia allora il bambino ci sta a seguirlo, perché l’animo del bambino è ancora suscettibile al linguaggio poetico, abilità che la maggioranza degli adulti di oggi hanno perduto.

Teatro per ragazzi: cosa ama trasmettere alle nuove generazioni?
In questo momento per me è importante dare delle speranze, lanciare messaggi positivi senza però nascondere le difficoltà che ci sono e senza aver paura di parlare di argomenti difficili: con i ragazzi si può parlare di tutto, basta trovare le parole giuste. I grandi autori per l’infanzia l’hanno fatto da sempre, nominiamone solo due, forse i più importanti: Astrid Lindgren e Roald Dahl. Ma l’hanno fatto da sempre pure le fiabe, dove il protagonista di solito ne esce vittorioso ma dove il percorso per sconfiggere il cattivo è sempre difficile e molto accidentato.

Quali sono gli elementi imprescindibili per una lettura in pubblico di qualità?
Uno solo: il rispetto del testo e dell’autore, cioè di chi il testo l’ha scritto. Il lettore a voce alta non è che la voce dell’autore e quindi deve capire quello che l’autore dice nel testo e non aggiungere nulla se non la sua voce, il suo corpo e i suoi sentimenti che però saranno al servizio della voce, del corpo e dei sentimenti del testo e dei personaggi di quel testo. La verità e l’essenzialità sono sempre la cifra sia del bravo attore che del bravo lettore a voce alta.

Cosa bisogna tener conto quando si traduce uno spettacolo da un’altra lingua?
Si deve tener conto della cultura da cui arriva e della cultura in cui arriva. Spesso non è facile trovare nella nostra lingua le parole che siano non solo la traduzione del testo, ma che siano anche le più giuste per rendere l’atmosfera del testo. Io che traduco abbastanza spesso dallo svedese ho proprio la difficoltà che trattandosi di due culture, la svedese e la italiana, ambedue europee ma molto lontane l’una dall’altra, spesso non è facile trovare le parole adatte in italiano per rendere quello che le parole svedesi vogliono dire.

E quali sono gli inciampi meno evidenti nei quali si può incorrere?
Io sono uno che ha lavorato spesso con “la lingua”, sempre considerando la lingua come mezzo importante del teatro ma non il più importante, visto che in teatro c’è pure il corpo e la presenza fisica dell’attore. Per me la lingua è sempre stata un elemento del teatro che va a pari passo con il corpo. Per questo uno dei miei grandi amori è stato da sempre Ruzante, perché la sua lingua è una lingua che è corpo, la tocchi con mano, la vivi, non importa se la capisci o non la capisci, teatralmente funziona alla perfezione. Ruzante mi ha portato ad apprezzare il teatro che usa i dialetti, ma solo là dove il dialetto è una necessità, dove il dialetto è corpo, cioè muscoli, merda - mi scuso della parola, ma è proprio così - e sangue, allora il dialetto ha senso, altrimenti diventa maniera.

Un esempio?
Goldoni. In Goldoni il dialetto veneziano diventa lingua, una magnifica lingua, basta pensare a due opere come “Le baruffe chiozzotte” e “Il campiello”, guarda caso due opere corali, dove la lingua è pura musica.

È importante mantenere vive le tradizioni dialettali?
È fondamentale sapere chi siamo e da dove veniamo. Se abbiamo ben chiaro questo non avremo mai paura di confrontarci e di aprirci ad altre culture ed esperienze. Se la tradizione, il dialetto diventano invece una ragione per chiuderci nel nostro piccolo mondo di sicurezze spesso fasulle soprattutto in questo momento di grande incertezza, allora credo che non faccia bene a nessuno. Ma se tradizione e dialetto - o “lingua del cuore”, come preferisco chiamarla io che sono cresciuto dialettofono, o “petèl” come la chiama Zanzotto - diventano una ricchezza della nostra formazione culturale e una delle tante chiavi che mi aiutano a capire di più l’altro, allora ben venga la tradizione e il dialetto a teatro, quando appunto è “necessità”.

Quali sono i pilastri su cui si fonda un’ottima dizione?
La dizione è una delle tante componenti dell’arte dell’attore e, a mio avviso, molto importante, ma non la più importante. La dizione come tutto il resto del lavoro dell’attore deve essere un continuo studio. Per un attore poi è importante la cultura: quindi studio anche nel senso più generale del termine: leggere, interessarsi, vivere il presente. Essere sempre curiosi e aver costantemente voglia di imparare cose nuove.

I suoi progetti presenti e per il futuro prossimo?
Ho appena finito una regia in Svezia di uno spettacolo per bambini che sta per girare proprio ora e di scrivere un adattamento di “Favole al Telefono” tratto da Rodari e che diventerà una prossima produzione di Teatro Musicale di Fondazione AIDA di Verona, di cui sono da quattro anni direttore artistico e che debutterà a dicembre. A maggio 2019 al Teatro La Fenice di Venezia molte scolaresche verranno a vedere un mio riadattamento e regia di una rilettura per bambini addirittura di quel monumento musicale che è la Tetralogia Wagneriana. E poi, vista l’età, perché no, mi piacerebbe un po’ di riposo, starmene in disparte a vedere cosa combinano le nuove generazioni di teatranti: ce ne sono tanti e bravissimi, anche in Veneto… tocca a loro!

La foto di Pino Costalunga è di Roberto Rizzotto