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Cultura-2

Bella e intelligente, certamente sensibile e generosa ma non meno lucida e determinata: quanto bastava per riuscire a farsi accettare, nella Venezia del '500, nello scomodo ruolo di prostituta, ma con tutti i privilegi dell'esserlo ad un livello superiore, amante raffinata per clienti di alto lignaggio e consistente patrimonio. Un suo bacio costava 6 scudi. L'amore, con lei, almeno 50. Tra i suoi ammiratori, il pittore Tintoretto, che le dedicò un ritratto. Tra i suoi clienti, per una notte, addirittura il futuro Enrico III di Francia, di passaggio a Venezia per raggiungere il trono che lo attendeva. Sacerdotessa di un sesso per pochi eletti, Veronica Franco fu però anche poetessa, fine conoscitrice d'arte e letteratura, ammessa in Accademie e circoli culturali (tra i quali quello di Domenico Venier, che fu suo mecenate).
Sino a noi sono giunte le sue  “Rime” e le “Lettere”, ma ella pubblicò anche un'antologia di scrittori celebri. Da notare che la sua riscoperta in tempi moderni si deve ad un critico non certo "morbido" come Benedetto Croce. A lei, nel 1992, Dacia Maraini ha dedicato un testo teatrale (“Veronica, meretrice e scrittora”), mentre nel film del 1998 “Padrona del suo destino”, per la regia di Marshall Herskovitz e con Catherine McCormack e Jacqueline Bisset nel cast, la Franco è proposta come esempio di donna coraggiosa e indipendente, che seppe sfidare il proprio tempo.
Chi era dunque Veronica Franco, da quale famiglia proveniva e come e perché si ritrovò a praticare il mestiere di "cortigiana onesta"? Qui di seguito, un viaggio fra le tappe salienti dei quarantacinque anni della sua breve ma intensa vita e qualche assaggio delle sue opere letterarie.

Una donna bella e ricca di spirito
Veronica Franco nacque nel 1546 a Venezia, dove morì nel 1591. Della sua città era orgogliosa, tanto da definirla, nelle “Rime”, «dominatrice alta del mare, / regal vergine pura inviolata...».
Figlia di Francesco Franco e di Paola Fracassa, “cittadini originari”, ebbe tre fratelli maschi: Jeronimo, morto di peste nel 1575, e ancora Horatio e Serafino, quest'ultimo prigioniero dei Turchi secondo quanto scritto dalla stessa Franco in uno dei due suoi testamenti giunti sino a noi. Dei fratelli seguì le stesse lezioni private, il che le permise di costruirsi una solida educazione: una preziosa rarità nella Venezia dell'epoca, nella quale solo il 4% delle femmine e il 26% dei maschi frequentava la scuola (dati del 1587), e appena il 10% delle donne sapeva leggere e scrivere.
Si sposò, molto giovane, con il medico Paolo Panizza. In tutto risulta abbia avuto sei figli (come da lei dichiarato durante il processo intentatole dall'Inquisizione del 1580), il primo dei quali, Achilletto, avuto quando aveva 18 anni, forse da Iacomo o Giacomo di Baballi, ricchissimo mercante dell'attuale Dubrovnik; un altro figlio si chiamava Enea, avuto dal patrizio Andrea Tron; tre figli potrebbero esserle morti in tenerissima età.
Il matrimonio con Panizza fu di brevissima durata, e fu certo il primo "contratto" stipulato dalla madre di Veronica, indicata come "mezzana" (pieza) nei registri della Repubblica. La giovane era una "cortigiana onesta", termine con il quale venivano indicate le donne che, pur praticando il mestiere più antico del mondo, avevano un buon livello culturale e si intrattenevano con i ceti più abbienti. Una situazione ben diversa, socialmente ed economicamente, da quella delle "cortigiane di lume", prostitute di basso ceto concentrate soprattutto nelle vicinanze del Ponte di Rialto. Al riguardo, una curiosità: nel 1509, stando ai “Diarii” di Marin Sanudo, il 10% circa della popolazione di Venezia era composto da prostitute, visto che la categoria contava 11.654 unità su 150mila abitanti. Più o meno la stessa situazione si registrava a Roma, dove nel 1490 le cortigiane erano 6.800; un po' meno nel 1526, quando il loro numero si attestava sulle 4.900 unità.
Nella sua "professione", Veronica ebbe grande successo, tanto era bella e intelligente, cultrice delle arti e della scrittura: ambiti che praticò con assiduità, tra l'altro dando alle stampe il già citato volumetto di “Terze rime” (del 1575, l'anno della grande peste; conteneva 18 capitoli a sua firma e 7 in suo onore, scritti da altri autori), un'antologia di scrittori celebri e una raccolta di “Lettere familiari” (1580), quest'ultima da lei stessa fatta recapitare anche al letterato francese Michel de Montaigne (1533-1592) in occasione di un suo viaggio a Venezia.
Un rapporto con Veronica Franco arrivava a costare 50 scudi (si pensi che un medico ne guadagnava circa 8 al mese); una bella carriera, rispetto ai 2 scudi richiesti nel 1565, secondo quanto indicato quell'anno nel “Catalogo de tutte le principal et più honorate cortigiane di Venetia”, vero e proprio listino prezzi per chi fosse interessato a questo tipo di servizi: «Veronica Franca, a Santa Maria Formosa, pieza so mare, scudi 2»; ma su questa bassa "quotazione" gli storici sono divisi, potendosi trattare, secondo alcuni, o di errore o di volontà denigratoria nei confronti della Franco.

Tra le sue braccia anche un futuro re
Numerosi furono i suoi clienti-ammiratori. Tra loro persino Enrico III, di passaggio a Venezia nel 1574 allorché, lasciato il trono di Polonia, si apprestava a salire su quello francese.
Una traccia di quell'incontro si trova in due sonetti (“Come talor dal ciel sotto umil tetto” e “Prendi, re per virtù sommo e perfetto”), donati dalla Franco all'illustre amante, insieme ad un suo piccolo ritratto. Non è escluso che la Franco sia stata un "presente" della Repubblica al nobile viaggiatore, e che la scelta sia caduta proprio su di lei nella speranza di poterla utilizzare come spia, conoscendone il forte senso patriottico.
Nel primo di quei sonetti, Veronica propone un parallelo tra Enrico, così gentile e affabile con lei nonostante l'alto lignaggio, e Giove, pronto ad assumere modeste sembianze umane per non intimorire le proprie amanti terrene: “Come talor dal ciel sotto umil tetto / Giove tra noi quaggiù benigno scende, / e perchè occhio terren dall'alto oggetto / non resti vinto, umana forma prende, / così venne al mio povero ricetto / senza pompa real ch'abbaglia e splende, / dal fato Enrico a dominio eletto, / ch'un sol mondo nol cape e non comprende. / Benchè sì sconosciuto, anch'al mio core / tal raggio impresse del divin suo merto, / che 'n me s'estinse il natural vigore...”.

Il 1575, annus horribilis
Nel 1575 a Venezia iniziò una delle pestilenze più terribili della storia. A 29 anni Veronica lasciò la città per sfuggire al contagio, che fece strage per un paio d'anni. Sopravvisse, ma per lei la vita cambiò radicalmente. Prima di tutto dovette incassare una delusione: a quel che si sa, infatti, la Serenissima rifiutò di aprire una casa per ex prostitute affidandogliene la direzione; una "Casa di soccorso", per la verità, venne realizzata quell'anno, ma del coinvolgimento della Franco non ci sono prove.
Ben più gravi furono però altri due avvenimenti. Durante la sua assenza da Venezia, la sua casa venne saccheggiata e gran parte delle ricchezze in essa custodite furono rubate, lascinadola in gravi difficoltà economiche. Nel 1580, inoltre, subì un processo dell'Inquisizione (del quale si conservano gli atti, contro “Veronica Franca publica meretrice”) con l'accusa, sostenuta da Ridolfo Vannitelli, precettore di suo figlio Achilletto, di praticare la stregoneria e il gioco d'azzardo e di non rispettare il divieto di mangiare carne al venerdì. Ne uscì indenne, anche grazie alle amicizie influenti che forunatamente non l'abbandonarono.
In quello stesso anno - unica nota positiva - la 34enne Franco pubblicò le proprie “Lettere familiari a diversi”, missive «scritte in gioventù», dichiarava. La pubblicazione era composta da cinquanta lettere e dai due sonetti in onore di Enrico III di Francia.
Dal 1580 al 1591, anno della sua morte, di lei non abbiamo più molte notizie. Nel maggio del 1587 si sa che denunciò un tale Bortolo per eresia (la denuncia è conservata nell'Archivio di Stato di Venezia, Sant'Uffizio, b. 59, n. 30). Pare, inoltre, che proprio nel 1580 ella abbia deciso di ritirarsi dalla "professione", dedicandosi invece a opere di carità.
Morì presumibilmente ai primi di luglio del 1591, se è veritiero quanto registrato nei “Necrologi” del Magistrato alla Sanità: «1591, 22 luglio. La Sig. Veronica Franca d'anni 45 da febre già giorni 20. S. Moisè». Si ritiene non sia morta in miseria, anche se certamente il suo tenore di vita, dopo i rovesci del 1575, si doveva essere di molto ridimensionato.

Due testamenti
Il 10 agosto 1564, diciottenne e sul punto di partorire, come consuetudine Veronica fece testamento, avendo come testimoni Pietro di Gozzi, di Ragusa (oggi Dubrovnik), e Angelo Benedetti. Queste le sue volontà: “Lasso a m. Jac.mo de Baballi el figliolo, over figliola che nasceranno de mi come a suo padre sia o non sia il signor Dio scia il tutto”, oltre al proprio diamante “per segno de amorevoleza”. Per sua richiesta, la si sarebbe dovuta seppellire a S. Francesco della Vigna “col vestito del ordene de la madona, in cataletto nudo”.
La stessa richiesta circa la sepoltura è presente nel testamento dell'1 novembre 1570, per il quale sono indicati come esecutori Lodovico Ramberti e Lorenzo Moresin. In caso di mancanza di eredi – scrive nel documento – il resto dei suoi beni dovevano essere dati come dote a due fanciulle; ma meglio ancora, nel caso se ne fossero trovate, a due prostitute desiderose di “lassar la cativa vita e maritarsi, o monacharsi”. Oltre che ai figli, in questo testamento decide di lasciare qualcosa anche ad Andrea, “accetato per fiol de anima”, figlio della sua cameriera Ancilla; e pensa anche al proprio fratello Serafino, rapito dai Turchi, scrivendo: “Occorrendo che venisse in luce mio fratello Serafin, qual è in man de Turchi, voglio chel sia riscatado con duc. dusento del mio cavedal”. Sempre a beneficio dei figli chiedeva inoltre a Giovanni Battista Bernardo, che sarebbe divenuto consigliere ducale e savio del Consiglio, “che sii contento per amorevoleza haver per raccomandati miei fioli”.

Poetessa e scrittrice di talento
Non mancano, negli scritti della Franco, riferimenti alla critica situazione delle donne del suo tempo, così accesi da farne una sorta di femminista ante litteram: “Se siamo armate e addestrate siamo in grado di convincere gli uomini che anche noi abbiamo mani, piedi e un cuore come il loro; e anche se siamo delicate e tenere, ci sono uomini delicati che possono essere anche forti e uomini volgari e violenti che sono dei codardi. Le donne non hanno ancora capito che dovrebbero comportarsi così, in questo modo riuscirebbero a combattere fino alla morte; e per dimostrare che ciò è vero, sarò la prima ad agire, ergendomi a modello”.
E ancora, in una delle “Rime” scrive: “Povero sesso, con fortuna ria / Sempre prodotto, perch’ognor soggetto / E senza libertà sempre si stia! / Né però di noi fu certo il diffetto, / che se ben come l’uom non sem forzute, / come l’uom mente avemo ed intelletto. / Né in forza corporal sta la virtute, / ma nel vigor de l’alma e de l’ingegno, / da cui tutte le cose son sapute; / e certa son che in ciò loco men degno / non han le donne, ma d’esser maggiori / degli uomini dato hanno più d’un segno. / Ma se di voi si reputiam minori, / fors’è perché in modestia ed in sapere / di voi siamo più facili e migliori”.
Colpisce, ancora, un passaggio tratto da una Lettera da lei scritta ad una madre intenzionata a fare della figlia una "cortigiana onesta". La ragazza, precisa la Franco senza troppi giri di parole, non ha la stoffa per farsi strada in quel mondo: “È così poco bella... ed ha così poca grazia e poco spirito nel conversar, che le romperete il collo credendola far beata nella profession delle cortegiane, nella quale ha gran fatica di riuscir chi sia bella ed abbia maniera e giudizio e conoscenza di molte virtù. […] S’ella diventasse femina del mondo – si legge ancora, e il pensiero non può non andare ad un possibile risentimento di Veronica nei confronti della madre -, voi diventereste sua messaggiera col mondo e sareste da punir acerbamente, dove forse il fallo di lei sarebbe non del tutto incapace di scusa, fondata sopra le vostre colpe”.
Un mestiere duro, quello della cortigiana, sottolinea la Franco, che alla stessa donna così lo descrive: “Troppo infelice cosa e troppo contraria al senso umano è l’obligar il corpo e l’industria di una tal servitù che spaventa solamente a pensarne. Darsi in preda di tanti, con rischio di essere dispogliata, d’esser rubbata, d’esser uccisa […] infermità contagiose e spaventose; mangiar con l’altrui bocca, dormir con gli occhi altrui, muoversi secondo l’altrui desiderio [… ] ma poi se s’aggiungeranno ai rispetti del mondo quei dell’anima, che perdizione e che certezza di dannazione è questa?”. Era questo il suo "mestiere", che ella non nascondeva al mondo ma dal cui peso cercava sempre e comunque, in qualche modo, di alleggerire la propria anima: “La vergogna è nell’alterigia di chi compra”, scriveva.
Cortigiana desiderata e contesa, aveva dei suoi amanti una cura particolare, che si esprimeva anche nella poesia; così scrive ad esempio nelle “Rime”, rivolgendosi a Marco Venier: “Dolcemente congiunta al vostro fianco, / le delizie d’amor farò gustarvi [… ] / Così dolce e gustevole divento / Quando mi trovo con persona in letto, / da cui amata e gradita mi sento, / che quel mio piacer vince ogni diletto […] / Fate che sian da me di lei vedute / Quell’opre ch’io desio, ché poi saranno / le mie dolcezze a pien da voi godute”.
Grande il suo amore per la cultura, le arti e le lettere: ”Io – scrive nelle 'Lettere' - sono tanta vaga, e con tanto mio diletto converso con coloro che sanno per avere occasione ancora d’imparare, che, se la mia fortuna il comportasse, io farei tutta la mia vita e spenderei tutto ‘l mio tempo dolcemente nell’academie degli uomini virtuosi”.

Il contrasto con Maffio Venier
Rampollo di una nobile e ricca famiglia, Maffio Venier era poeta dialettale e uomo dal carattere ombroso. Capitò dunque che per Venezia iniziassero a circolare alcuni versi anonimi - dal titolo “Veronica, ver unica puttana” - nei quali si dichiarava che la bella Veronica Franco era malata di sifilide. La donna pensò che ad esserne l'autore fosse un suo amante molto in vista, Marco Venier, cugino di Maffio e futuro ambasciatore di Venezia a Costantinopoli, che a lei aveva però sempre dedicato rime di ben diverso tenore, piene d'amore e desiderio.
Quando la verità venne a galla, la Franco sfidò Maffio a duello e, successivamente, a singolar tenzone sì, ma a colpi di versi poetici (“D'ardito cavalier non è prodezza”). L'uomo non accettò la sfida di quella donna intelligente e coraggiosa. Il suo destino, peraltro, fu tragico: Maffio morì infatti proprio di sifilide nel 1586.

Alessandra Agosti

Nella foto sopra, gente in festa in una locanda in un dipinto di Simon de Vos (1603-1676)