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Protagonisti

Quell'amatoriale di Govi

Nel 2016 si è celebrato il cinquantenario della scomparsa di Gilberto Govi (1885-1966), attore-icona del repertorio dialettale genovese. Di questa figura carismatica del teatro italiano della prima metà del Novecento, capace ancora oggi di far sbellicare dalle risa il pubblico, abbiamo parlato con Giunio Lavizzari Cuneo, presidente dell’associazione dedicata a Gilberto e Rina Govi e curatore del lascito voluto proprio da Caterina Franchi (in arte Rona Gaioni, 1893-1984), moglie dell’attore. Il materiale goviano – dal suo studio all’archivio di copioni e documenti - è custodito negli spazi del Museo Biblioteca dell’Attore di Genova (www.museoattore.it/).

di Alessandra Agosti

fotina lavizzari

Come è diventato curatore del lascito Govi?
Quando Rina Govi morì, nel 1984, io frequentavo la sua casa già da una decina d’anni. Prima di morire, Rina decise un lascito dei materiali appartenuti al marito, cose di scena, copioni e altro, con destinazione finale il Museo dell’Attore. Come esecutrice testamentaria di Rina e curatrice del lascito venne indicata una sua carissima amica, Serena Bassano, figlia di Enrico, l’ultimo commediografo goviano, autore tra l’altro de “Il porto di casa mia”. Fu proprio Serena, che conobbi a casa Govi, a coinvolgermi nella fondazione di un’associazione dedicata a Gilberto e Rina, della quale lei fu presidente e io vice. Quando morì, nel 2012, presi il suo posto alla presidenza e come curatore del lascito.

Interno GilRina Govi

Govi è stato un alto rappresentante del teatro dialettale…
Il termine “dialettale” non ritengo sia corretto: il dialetto è una corruzione di un’altra lingua, che sarebbe l’italiano, mentre queste lingue locali nascono prima dell’italiano, direttamente dal latino. Quanto al ruolo di Govi nella diffusione di questo tipo di repertorio, è stato certamente molto rilevante e continua ad avere un peso. Qualche mese fa, per esempio, in Val di Fassa, mi è capitato di assistere ad una commedia di Govi tradotta in ladino. Questo, per me, è il simbolo di una bellissima italianità: le lingue regionali hanno tradotto Govi e che ne hanno fatto un patrimonio regionale.

Un processo nel quale il teatro amatoriale continua ad avere un ruolo importante. Ma che rapporto ha avuto Govi con il teatro amatoriale?
Govi ha mosso i suoi primi passi nel teatro proprio in una compagnia amatoriale. A Genova, fin dalla seconda metà dell’800, esisteva la prestigiosissima Accademia Filodrammatica Italiana, che si esibiva al Teatro Stabile di Genova, e Govi vi si iscrisse fin da ragazzino. La curiosità sta nel fatto che suo padre Anselmo aveva origini modenesi, mentre sua madre Francesca era di Bologna: ma lui, nato a Genova, aveva iniziato subito a parlare in genovese e aveva deciso di fare teatro in genovese. Ma l’Accademia, al contrario, aveva velleità “italianistiche” e lo espulse. Lui se ne andò, ma non senza dire ai filodrammatici che, prima o poi, si sarebbero ricreduti… E così fu. Iniziò il suo percorso da professionista, sul finire della prima guerra mondiale, raccogliendo i primi successi a Torino e Milano. Nel 1917, intanto, si era sposato con Rina.

Per un professionista, in quegli anni, la scelta di recitare in genovese doveva sembrare azzardata...
In effetti fu una scelta sofferta ma voluta, non casuale. Non era figlio di genovesi, era quasi uno “straniero”, e questo rende ancora più significativa la sua scelta. Inoltre, fino alla prima guerra mondiale, un contadino per esempio della Basilicata non sapeva nulla – della parlata, del modo di pensare, del cibo - di un contadino veneto. La prima guerra rimescolò un po’ tutto. Ma il fascismo non amava le lingue regionali, che considerava un ostacolo alla formazione della patria fascista; anche a teatro, salvo due grandi eccezioni: i De Filippo e Govi. Nella seconda metà degli Anni ‘20, Govi faceva tournée in tutta italia. Fece anche uno spettacolo a Roma. Mussolini, che all’epoca non era ancora nella fase “impero” ma in quella da redingote e tuba, andò a vederlo e si divertì tantissimo, al punto da andare in camerino da Govi e dargli una sua foto con dedica (che è conservata nell’archivio); vi si legge: “A Govi, grande maestro di comicità genovese e italiana”. Ne sottolinea, ovviamente, l’italianità, ma Govi recitava in genovese.

StudioGovi museoAttore

Come visse quegli anni?
Questa “patente” gli permise di passare indenne la bufera del fascismo e dell’antiregionalismo spinto. Fu anche ospite della corte sabauda a San Rossore e fu amico di Italo Balbo, il “figlio scapestrato” del fascismo, che lo invitò a recitare a Tripoli, dov’era governatore. Durante la seconda guerra mondiale perse tutte le sue scene e le attrezzature in un bombardamento a Livorno nel ‘42. Abitava a Genova, e subì le vicende della Repubblica Sociale: fu obbligato, tra l’altro, a recitare agli spettacoli di beneficienza per la decima MAS, ma non essendo questa una sua scelta politica (Govi non si occupò mai di politica), dopo la liberazione non gli fu imputato alcun collaborazionismo, a differenza di quanto successe ad altri artisti.
In piena guerra, nel ‘42, girò anche un film, “Colpi di Timone”, per la regia di Gennaro Righelli (di questo testo abbiamo anche la registrazione della version teatrale): un lavoro carino, apprezzabile per l’epoca. Govi, comunque, era attore di teatro nel senso più completo del termine: sapeva viverlo, interpretare, e con il pubblico aveva un dialogo costante, continuo, giocato sulle battute. Con il cinema, invece, ebbe un rapporto conflittuale, come Eduardo De Filippo.

Restiamo sul suo rapporto con il pubblico e sulla sua capacità di “lavorare” le battute…
Come esempio, pensiamo alla scena più famosa della comicità goviana, quella di “Gassetta e pomello”. In questo passaggio, Govi si veste fuori scena, al buio, continuando il dialogo con la moglie, che si trova sul palco. Quando torna ha il gilet abbottonato male, e il pubblico ride. L’attrice capisce i “messaggi” di Govi e i due iniziano quel gioco che fa diventare quell’errore un autentico capolavoro. Rina diceva spesso che, da quel momento, la scena aveva iniziato a dilatarsi enormemente, durava anche 15 minuti, con un crescendo continuo di risate. Quello che si vede in tv, nella ripresa di quelle commedie, ne è solo un pallido riflesso, perché la RAI, per questioni tecniche, mise dei vincoli alla durata delle scene e ai tempi comici di Govi. Come molti grandi, dava il meglio di sé quando era libero: aveva una grande maestria, nel trucco, nella mimica, nel cogliere i tempi comici e ogni sera lo spettacolo a teatro cambiava, a seconda delle sfumature che il pubblico gli sapeva trasmettere.

E sapeva arrivare a qualcunque pubblico, nonostante la lingua genovese.
L’internazionaltà di Govi è un’ulteriore testimonianza della sua grandezza. Bassano, che fu anche il suo primo biografo, raccontava un aneddotto. Si trovava in Abruzzo, in un paesetto arroccato sui monti, e l’unica tv era quella del bar, strapieno. Davano proprio una commedia di Govi. Accanto a Bassano si sedette un pastore, che rise di gusto dall’inizio alla fine. «Che cosa hai capito?» gli chiese Bassano alla fine; «Tutto e niente», rispose quello. Ecco: pur non comprendendo il dialetto, e probabilmente neanche l’italiano, quel pastore aveva colto gli spunti di comicità che Govi trasmetteva: questa era l’internazionalità di un attore che superava il limite della lingua.

Lei non ha conosciuto Gilberto Govi di persona, ma con Rina ha intessuto una lunga amicizia. Che tipo era?
Una persona splendida. Nel ‘74 iniziai a fare teatro amatoriale. Una sera arrivano in camerino Rina Govi e Claudio D’Amelio, quello della famosa scena del sigaro in “Pignasecca e Pignaverde”. Avevo 19 anni, e ringraziai Rina di essere venuta, dandole del “lei”. E Rina: «No, no, no, tra colleghi ci si dà del tu». Mi sono sciolto. Da allora cominciai a frequentare casa Govi, tanto che anche mia nonna divenne amica di Rina, sua coetanea.

Govi mascherone

E il Govi raccontato da Rina com’era?
Ricordo una trasmissione dedicata a lui, con Rina come ospite. Ad un certo punto le chiesero se Govi era sensibile al fascino femminile, e lei: «Sensibilissimo». Ricordava bene quante giovani attrici andavano a trovarlo in camerino, speranzose. Finché sentiva delle voci dal camerino di Govi, attiguo al suo, andava tutto bene; se però c’erano silenzi che si protraevano un po’ troppo, era d’accordo con la propria domestica: quella andava di là, bussava, e diceva: «Commendatore? Mi sono dimenticata di prendere una cosa».
E a proposito di belle donne, ricordo una cosa divertente legata a “Colpi di timone”. In quella commedie c’è la donna di facili costumi che tenta di irretirlo, dicendo: “Sono una ragazza che soffre”; e lui: «Sì, che s’offre, con l’apostrofo». Finita questa commedia, Govi voleva questa ragazza per un’altra parte, in genovese; ma venne fuori che lei non lo sapeva parlare. Govi sbottò: «Ma come? Al provino parlavi genovese!»; e lei «No commendatore: lei parlava genovese, io rispondevo sci sci, nou nou». Ecco, diciamo che Govi era stato “distratto” da altri particolari.

Torniamo all’amatoriale. Abbiamo detto che Govi iniziò da filodrammatico, ma una volta divenuto famoso cosa ne pensava?
Ha sempre considerato l’amatoriale, e questo fa parte del suo personaggio. Lui ha cominciato a recitare nell’oratorio parrocchiale, è entrato nell’Accademia e infine si è reso conto che poteva fare il professionista. La moglie raccontava che Govi andava spesso a vedere le compagnie amatoriali, riconoscendone la passione. Valorizzava tantissimo il teatro amatoriale, proprio come la moglie e come tutti i grandi attori, che non hanno pregiudizi verso l’amatoriale.

Le immagini sono di libero utilizzo o tratte dal sito del Civico Museo Biblioteca dell’Attore di Genova
http://www.museoattore.it/