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Cultura

La rockstar
e il ballerino

Cosa accade quando teatro e mondo della musica pop tentano di interagire tra loro? Può un cantautore sprovvisto di tecnica attoriale fare del teatro sul palco durante un proprio concerto? Un esempio su tutti risulta felice e significativo, quello della rockstar David Bowie. Per meglio comprendere il lascito del compositore londinese va compiuto un poderoso balzo all’indietro ricordando il suo primo mentore degno di nota: Lindsay Kemp.

di Filippo Bordignon

Calvo, minuto, bocca capace di trasformarsi in un enorme sorriso e, un istante più tardi, adattarsi a un’inimmaginabile smorfia di sofferenza, il regista, attore, ballerino e coreografo scozzese Lindsay Kemp incarna uno dei gioielli meglio custoditi nella storia dello spettacolo internazionale. Pur avendo attraversato vite e carriere di personaggi chiave del Novecento come il regista Federico Fellini o il ballerino Rudol’f Nureev egli gravita all’interno di un limbo underground che ne fa ancor oggi personaggio cult per gli addetti al settore. In virtù di un talento e un carisma che le parole non possono descrivere Kemp si affermò tra i protagonisti del teatro-danza a partire dagli anni ’60 e fu certamente, fino alla morte a Livorno nel 2018, il più significativo artista mimico vivente. Tra i suoi spettacoli più rappresentativi citeremo almeno “Flowers... una pantomima per Jean Gênet” del 1968, “Salomè” (1977) e fino al più recente “Kemp Dances” (2014), dimostrazione di un eclettismo capace di auto-rinnovarsi dopo 46 anni di attività. Tra i suoi allievi più noti figurano però anche personaggi poi distintisi in ambito musicale quali Peter Gabriel, Kate Bush e, soprattutto, il camaleontico “duca bianco” David Bowie.
Bowie - allievo, amante e successivamente collaboratore di Kemp - dimostrerà d’aver appreso dal proprio mentore gli ingredienti necessari per il conio di uno stile e un’identità artistici votati alla continua trasformazione. Sono facilmente reperibili su Youtube alcune testimonianze del Bowie attore teatrale: nel 1969, appena ventiduenne, concede una buona prova di mimo nel breve filmato “Mask”, interpretando un personaggio che cade vittima della maschera che gli aveva permesso di ottenere il successo. L’anno successivo compare con un look scapigliato nel mediometraggio tratto da un’opera di Kemp, “Pierrot in turquoise”, e già s’intuisce che il ragazzo vuole farcela con le proprie gambe. La prima metà degli Anni ’70 vedrà la lenta ma inesorabile costituzione di un personaggio artistico e pubblico dotato di un look ma soprattutto una storia e personalità proprie: Ziggy Stardust. Nella visione di Bowie, Ziggy sarebbe un alieno (dunque svincolato dalle restrizioni sessuali dell’essere umano) che, attraverso il rock, avrebbe portato i suoi fan a una nuova era di edonismo e illuminazione spirituale. In un melting pot di occultismo mutuato dal satanista Aleister Crowley ed esaltazione nietzschiana il compositore diede il via a una rivoluzione dei costumi introducendo nella musica leggera un vocabolario colto ma non solo. Il trucco e i costumi di scena del suo spettacolo con la band Spiders from Mars s’ispiravano agli eccessi coloristici del teatro Kabuki e Nō giapponesi. Kemp con la sua compagnia teatrale aprirà l’oggi leggendaria esibizione di Ziggy al Rainbow di Londra nell’agosto del 1972: è la definitiva consacrazione del glam rock. La fascinazione di Bowie per il teatro e la recitazione non si spegnerà con la fine del personaggio di Ziggy (l’annuncio dell’addio alle scene venne dato a un pubblico in delirio durante lo show conclusivo del tour nel luglio 1973); nel corso di una carriera costeggiata di successi planetari e sperimentazioni in pressoché ogni genere musicale conosciuto Bowie si cimentò in esperienze per il grande schermo dalla qualità altalenante. È un alieno alcolizzato nella pellicola concettuale di Nicolas Roeg “L’uomo che cadde sulla terra”, un irriducibile soldato britannico prigioniero a Giava nel commovente “Furyo” di Nagisa Oshima e persino il re degli gnomi per il successo da cassetta “Labyrinth” di Jim Henson. Convinto però che l’unica esperienza in grado di consacrarlo attore a tutti gli effetti fosse attraverso il teatro in nostro debuttò ufficialmente a Broadway il 23 settembre 1980 con “The elephant man” per la regia di Jack Hofsiss. Il dramma è ispirato alla vera storia di John Merrick, fenomeno ambulante vissuto in epoca vittoriana. Le terribili malformazioni di Merrick non sono però rappresentate visivamente nella versione teatrale dell’80: alla commovente mimica di Bowie è conferito il compito di suggerire al pubblico il corpo deforme del protagonista senza l’aiuto di trucco o costumi. Nonostante ottime recensioni di critica e impennate di vendite al botteghino il cantante sceglie di non rinnovare il proprio contratto, esibendosi nei panni dell’uomo elefante per l’ultima volta nel gennaio dell’81.
Durante i seventies, grazie all’esempio indicato da Bowie attraverso i propri concerti e la serie di personaggi pubblici nei quali si calò per tutto il decennio (oltre a Ziggy, Aladdine Sane, il Thin White Duke) fiorirono in Inghilterra una serie di nomi intenzionati a ibridare il rock con gli eccessi visivi di certo teatro. I Genesis capitanati da Peter Gabriel sono certamente l’esempio più evidente di rock-teatrale. Impacciato da un personalità inadatta al palcoscenico il cantante londinese scelse, durante una storica data dublinese, settembre 1972, di tentare uno stravagante escamotage: durante l’esecuzione del brano “The musical box”, senza avvisare gli altri musicisti, Gabriel se ne uscì con un lungo abito rosso preso a prestito dalla moglie e indossando una maschera con le sembianze di una testa di volpe. L’effetto sul pubblico fu dirompente. Da allora in avanti egli abbinò al repertorio prog della band una serie di abiti e maschere tra i più stravaganti che si possano ancor oggi immaginare, per conferire alla musica un aspetto visivo che amplificasse l’intensità di un repertorio già destinato alla storia. Nelle tournèe successive e fino al 1975, anno in cui uscì il doppio concept “The lamb lies down on Broadway”, il buon Peter calzò i panni, citiamo nel mucchio, di un vecchio dal viso raggrinzito, di Britannia, di un giardiniere intento a impiegare una falciatrice immaginaria, di Rael (ragazzo portoricano protagonista di “The lamb…”) per giungere all’eccessivo Slipperman, mostro dal corpo ricoperto di bolle (alcune delle quali predisposte per gonfiarsi durante l’esibizione). Abbracciata la carriera solista e abbandonati certi pacchiani eccessi visivi Gabriel proseguì in una carriera votata alla multimedialità ideando alcuni dei videoclip più originali degli eighties e, successivamente, sviluppando concerti in grado di sposare la video arte e proporre trovate tecnologiche all’avanguardia che contribuirono a rivoluzionare il settore della videoripresa e dell’illuminotecnica.
Ispirato ai b movies dell’orrore e al teatro francese del Grand Guignol lo statunitense Alice Cooper virò invece su uno shock-rock che, a proposte musicali adatte per un pubblico adolescente, affiancò tematiche scabrose quali la necrofilia impiegando però un linguaggio mai completamente esplicito. I suoi spettacoli nella seconda metà degli Anni ’70, prevedevano l’impiego di costumi e oggetti di scena sfacciatamente kitch ma certamente adatti per far sussultare l’imberbe pubblico statunitense di allora. Sul palco affiancavano Cooper comparse vestite da bottiglie di tequila, ragni pelosi, enormi mostri di omerica derivazione, suore volteggianti in abiti deviati da culti pagani e, di per contro, fanciulle in sottoveste armate di fruste scatenate in coreografie certo non imperdibili. Protagonista indiscusso dotato di una manciata di hit, Cooper, impersonava la rockstar posseduta dallo spirito di una presunta strega bruciata sul rogo (chiamata, appunto, “Alice”), immolandosi così al dio/demone del rock e finendo per essere ghigliottinato o giustiziato su una sedia elettrica fittizia (ma in grado di rilasciare fumo e scintille al momento clou). Presto seppellita dagli yuppie della musica Anni ‘80 l’immagine di Cooper verrà ripresa e confezionata con ulteriore successo commerciale 35 anni più tardi da un inquietante ragazzino di Canton, tale Brian Warner, poi conosciuto a livello planetario come Marilyn Manson.
In Italia, patria della Commedia dell’Arte e della commedia all’italiana, il teatro sortirà nella musica effetti certamente più rassicuranti. Basti pensare all’Arlecchino Elettrico inventato dal cantautore Alberto Camerini, straniante congiunzione tra il teatro dell’arte - nel quale il musicista di origini brasiliane si era cimentato da amatoriale in giovane età - e il synth-pop esploso nella prima metà degli Anni ’80 anche nel Bel Paese. Ne risultarono un paio di album variopinti, una manciata di hit tra le quali va ricordato “Rock’n’roll robot”, “Tanz bambolina” e un “La bottega del caffè”, labilmente derivato dall’arcinota commedia del Goldoni. Risultati di ben altra profondità furono ottenuti da un ex-peso medio del rock’n’roll nostrano sul calare degli Anni ‘50, Giorgio Gaber. La maturazione artistica del cantautore milanese proseguì per tutto il decennio successivo sfornando successi da classifica e divenendo uno dei personaggi più amati del piccolo schermo. Abbandonata la tv nel 1970 avviene la svolta, creando il genere del “teatro canzone”. Spogliatosi del ruolo di simpatico affabulatore egli prende a identificarsi con “Il signor G”, personaggio che calca in realtà l’animo dell’uomo Gaber più vero, quello capace di trattare temi sociali con parole nette e non ostiche, con un linguaggio poetico e mai eccessivo. In aggiunta, sul palcoscenico fa sfoggio di una naturalezza da attore scafato, lanciandosi in monologhi di evidente complessità intervallati da canzoni accompagnate da una band o dalla sola chitarra classica. Il lascito di Gaber sulla cultura italiana è affare che richiede un’ulteriore rivalutazione - come per l’amico e collega Enzo Jannacci, troppo spesso semplificato nell’autore della celebre “Vengo anch’io” - forte com’è di un repertorio incapace a invecchiare e anzi destinato a influenzare attori, cantautori e “cantattori” nel futuro a venire.
Intuendo che, tra le arti, la contaminazione resta la dominante anche nel nuovo millennio, teatro e musica popolare proseguono in un ambivalente processo di vampirizzazione che, talvolta, al botteghino concede risultati mozzafiato. Basti pensare alle cifre da record del musical su musiche degli svedesi Abba “Mamma mia!”: rappresentato a Londra per la prima volta nel 1999 i dati risalenti al 2003 davano per venduti oltre 10 milioni di biglietti in tutto il mondo.
Quale sarà il nuovo fenomeno degli anni a venire? In attesa dell’uscita nelle sale cinematografiche italiane del film “Judy” dedicato alla vita della cantante e attrice Judy Garland c’è già chi vocifera in un ritorno in pompa magna del dramma teatrale “End of the rainbow” scritto da Peter Quilter nel 2004 a cui si ispira la pellicola. Saranno le sognanti canzoni de “Il mago di Oz” il tormentone sui palchi teatrali per il prossimo decennio?

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